La comprensibile attenzione alle vicende della politica italiana, dominata dalla elezione da parte del Parlamento del capo dello stato, ha lasciato un po’ in ombra un’altra elezione – di almeno altrettanto rilievo per i destini dell’Unione Europea – quella del presidente della repubblica in Francia, che, come si sa, è eletto direttamente dai cittadini.
In entrambi i casi, il risultato della consultazione è imprevedibile, a causa specialmente della debolezza dei partiti politici e della volatilità delle scelte degli elettori, fenomeni questi entrambi presenti sia in Italia sia in Francia, anche se in forme diverse e nonostante la differenza dei sistemi costituzionali.

Caratterizzati da noi da un parlamentarismo con correttivo presidenziale (potremmo sinteticamente definire così il sistema politico italiano) e da un cosiddetto semi-presidenzialismo in Francia. Quest’ultimo, negli ultimi due decenni – con il passaggio dal mandato presidenziale di sette anni a quello di cinque, escludendo in pratica la coabitazione fra un presidente e un primo ministro di diverso colore politico – ha accentrato sul presidente eletto dai cittadini un potere difficilmente resistibile, anche perché le elezioni legislative che hanno luogo sulla scia di quelle presidenziale difficilmente (finora) privano il capo dello stato di una sua maggioranza alla Assemblea Nazionale. È chiaro che dopo le elezioni tedesche dell’autunno scorso e la formazione in quel paese di un governo a guida social-democratica e centrista solidamente pro-europeo, le due elezioni, in Italia ora e poi in primavera in Francia, costituiscono una tappa cruciale per la storia dell’Unione. Come si sa, quest’ultima dovrà definire, con l’essenziale contributo dei suoi stati membri più popolosi ed economicamente più rilevanti, le tappe del suo divenire futuro.

Per quanto riguarda il nostro paese, sapremo presto se il felice equilibrio, che si è formato in particolare durante l’ultimo anno, resisterà dopo un’elezione dai risultati per ora molto incerti, che potrebbero nel peggiore dei casi destabilizzare lo stesso assetto della maggioranza di governo. In Francia, la campagna elettorale, che necessariamente precede la scelta del presidente da parte degli elettori, è ormai cominciata da tempo, senza che si possa al momento prevedere il risultato finale. È peraltro possibile coglierne uno snodo essenziale: diversamente da altre elezioni del passato, è ragionevole pensare che questa volta molto si deciderà già al primo turno – quello che seleziona i due candidati che si confronteranno allo spareggio finale – e cioè l’assetto della vita politica transalpina al di là del nome stesso del capo dello stato. Da un po’ di tempo i sondaggi sembrano confermare l’ipotesi che il presidente Macron, salvo sorprese, dovrebbe essere uno dei due sfidanti. Inoltre, dopo che la destra post-gollista si è decisa a scegliere, grazie ad una elezione primaria interna al partito, il suo candidato comune, mostrano altresì che la candidata tradizionale del partito sovranista (Rassemblement National) Marine Le Pen e la candidata di quello che per comodità chiamiamo post-gollista (Les Républicains), Valérie Pécresse, sono praticamente allo stesso livello nelle intenzioni di voto, entro un margine di differenza che non permette di fare alcuna previsione circa colei che accederà al ballottaggio.

È però possibile descrivere qual è la posta in gioco del risultato al primo turno assumendo (il che sembra del tutto verosimile oggi) che, oltre a Macron, una delle due e non altri (i candidati più estremisti) risulterà vincente nella competizione che la condurrà al confronto con il presidente uscente. Se la Le Pen dovesse, come nel 2017, essere la sfidante di Macron, è probabile che perda per la terza volta e dovrà abbandonare la leadership dell’ala nazionalista comunque presente nell’elettorato francese. Viceversa, una eventuale sconfitta di Valérie Pécresse al primo turno sarebbe politicamente più significativa: essa segnerebbe infatti una importante disfatta per la destra post-gollista che, come la sinistra tradizionale, rischierebbe di indebolirsi drammaticamente. A un punto tale che, per la prima volta, alla consueta competizione fra destra e sinistra si sostituirebbe quella fra europeismo – inclusivo della sinistra e della destra moderate – e nazionalismo (il che ci ricorda in qualche misura alcuni aspetti dello scontro politico in atto oggi anche in Italia).

Se invece la candidata della destra liberale giungesse al ballottaggio vorrebbe dire che la componente post-gollista non è morta in Francia. I sondaggi relativi al secondo turno sono per ora meno significativi, poiché non è facile anticipare cosa faranno in occasione del ballottaggio gli elettori i cui candidati saranno stati eliminati al primo turno. Essi, tuttavia, suggeriscono che Pécresse potrebbe sconfiggere Macron. Se un tale scenario dovesse realizzarsi, il quadro politico francese verrebbe destabilizzato in un modo diverso, poiché in competizione resteranno solo due destre: quella moderata di Pécresse e di gran parte del suo partito e quella nazionalista di Le Pen. La sinistra francese è troppo divisa per potersi ricomporre facilmente nel prossimo futuro e Macron se fosse sconfitto, si ritirerebbe verosimilmente dalla vita politica, senza lasciare dietro di sé un vero partito, poiché questo non si è strutturato durante la sua presidenza. Certo, un cambio al vertice della vita politica francese rallenterebbe il processo di integrazione di cui l’Unione Europea ha bisogno. Anche perché, almeno per ora, non sono ancora chiare le posizioni sul tema di Valérie Pécresse.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

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