Per parlare dell’ultimo romanzo di Maurizio Fiorino, Macello (Edizioni E/O, pp. 160, euro 15), forse è necessario sposare una prospettiva da fotoreporter, posto che l’autore crotonese, classe 1984, è anche un noto fotografo.
La storia di formazione e de-formazione del protagonista, Biagio, tra angusti paesaggi e opprimenti sfondi calabresi, ci arriva come l’intreccio di reperti fotografici che vengono da lontano, da una dimensione remota nel tempo e nello spazio, da un punto di vista – apparentemente freddo perché distante – sperso in un punto dell’universo dal quale si è scelto di raccontare una frustrazione esemplarmente meridionale: «Il paese dove fui partorito a un certo punto cessò di esistere, sepolto da così tante piogge da diventare un paese fantasma».

Biagio è il figlio del macellaio del paese di Bagnamurata; cresciuto senza madre, il padre lo considera un idiota isolato da tutto e tutti fuorché dalle carcasse di maiale che prende a pugni nel retrobottega della macelleria. Grazie ad automatismi spietati quanto meccaniche riproduttive Biagio si fidanza con la ragazza più brutta del paese, Sara, e senza nessun amore la sposa, rischiando di diventar padre. Questo accade quando suo padre scompare misteriosamente, dopo un addio notturno e sinistro al figlio adolescente: da quel momento Biagio prenderà la sua strada di pugile fallito prima, nuovo macellaio del paese poi, trascinando i propri giorni da una sponda all’altra di una provincia senza prospettiva.

Fino a che giunge un principe, animo di artista e nome di poeta, il giovane Alceo, a portare un po’ di luce nell’esistenza di Biagio, distinguendo il destino di questi da quello del padre scomparso: «Ho sempre pensato – racconta il protagonista all’inizio – che mio padre avesse un’altra vita, perché da qualche parte, anche se sei la persona più triste del mondo, l’idea di felicità, fosse solo per un attimo, deve pure incuriosirti». E il lettore degli anni delle nuove consapevolezze e delle rivendicate libertà si illude che sia venuto per Biagio il tempo delle cose fuori dal macello. Non diremo qui l’esito finale, se non per rimarcarne l’originalità spiazzante e amara rispetto a una storia battuta dalla melodia di un destino atavico di infelicità arcana e riconoscibilissima da ogni lettore avvezzo alla sconfitta. Tutto questo passa per una scrittura tanto lineare quanto emotivamente impegnata, che restituisce la storia di Biagio, anni e anni dopo, con la prima persona di lui, nella quale alla durezza della realtà si oppone sempre un principio, anche solo una scorza, di empatia.

Al racconto del primo appuntamento con Sara, Biagio ricorderà l’aspettativa della ragazza di essere accettata: «Era un modo confuso, di chi non sa come muoversi nel mondo, così come lo era il mio prendere a pugni i maiali nel retrobottega della macelleria». Questa sensazione di confusione lo rincuora perché «in fin dei conti, non vuol dire che le cose che facciamo non hanno un senso. Tutto loro, magari, ma ce l’hanno». E un senso per rileggere il passato e stare nel presente verrà in effetti a Biagio dal più insensato degli abitanti del paesino: il travestito Vittorio, con la mano offesa e le mance tristi gettate per ripagare chi, per pochi minuti, ha sopportato i suoi desideri proibiti.