Diluvia. Nella sua casa romana, Emma Bonino mette ordine tra i suoi appunti per provare a guardare il mondo così come lo si può vedere oggi, in mezzo a due guerre per le quali non si disegna ancora una possibile prospettiva di uscita dal conflitto, in mezzo a una crisi senza precedenti dell’ordine internazionale, nella luce incerta di un avvenire che appare denso di incognite per le stesse istituzioni europee.
Questo è il mondo in cui viviamo, ma io dovrei cominciare dal voto regionale in Abruzzo. Con la vittoria del centrodestra e tutti i discorsi che tornano da capo: che ne sarà del campo extralarge del centro-sinistra, se le tensioni nella maggioranza saranno attutite dall’affermazione di Marsilio, se vi saranno riflessi sulla politica nazionale. Mi ferma bruscamente: «Ma le pare che con tutto quello che c’è da dire sul piano geostrategico globale dobbiamo preoccuparci del voto in Abruzzo? Non lo trova ridicolo?».
Credo abbia ragione, ma non sono sicuro che negli ultimi anni la politica italiana non abbia più volte sfiorato il ridicolo, che anzi non ci sia finita dentro e continui a finirci dentro con tutti e due i piedi. Ad esempio, onorevole, le prossime elezioni europee: da un lato si dice che mai come questa volta sono decisive, che è in gioco il futuro dell’Europa – non questo o quel futuro, ma se l’Europa abbia o meno un futuro –; dall’altro, però, le forze che si dicono più convintamente europeiste non riescono a superare resistenze e diffidenze di molto minore momento (per non dire semplicemente personalistiche). Ecco il paradosso: Meloni ha il problema di mettere insieme l’appoggio a von der Leyen e l’amicizia per Orbán; il centrosinistra porta in pancia il pacifismo di Conte e l’appoggio all’Ucraina del Pd; piùEuropa, Italia viva, Azione la vedono invece alla stessa maniera su tutte le principali partite politiche europee e internazionali, eppure non riescono a ritrovarsi in un progetto comune. Emma Bonino mi ferma di nuovo: «Io avevo lanciato l’idea di una lista di scopo per gli Stati Uniti d’Europa. All’inizio parevano tutti contenti. Bene. Passano dieci giorni. Poi tutti prendono a litigare con tutti. L’uno pone il veto all’altro. Quello incamera Cuffaro, quell’altro si affretta a registrare il simbolo. A che punto ormai siano le cose non lo so ma io vado avanti per la mia strada».
Emma Bonino: la lista di scopo e i veti
L’uno, l’altro, i veti e le ripicche: strade che più divergenti non si può. Intanto continua a diluviare, e non smetterà per tutto il tempo. Emma Bonino riguarda i suoi appunti, ogni tanto si schiarisce la voce, non perde mai la pazienza ma si capisce che è un faticoso esercizio di virtù, il suo.
Proviamo allora da un’altra parte. Non è facile fare previsioni sui nuovi equilibri nel parlamento europeo. Sono di queste ore le prime incrinature nel sostegno alla ricandidatura di von der Leyen alla guida della Commissione. Dopo il congresso del PPE, la maggioranza Ursula, con eventuale sostegno dei conservatori, non pare più saldissima (alla Leopolda Renzi si è chiamato fuori e c’è chi pensa che dietro la sua presa di distanza ci sia Macron), tutti i giochi sembrano aperti. Indipendentemente da tutto ciò, sul futuro dell’Unione può essere ancora più decisivo quel che accadrà dall’altra parte dell’Atlantico, soprattutto se Trump dovesse tornare alla Casa Bianca: «Le elezioni negli Stati Uniti d’America rappresentano un tornante per gli equilibri mondiali e come tutti i tornanti non è privo di rischi. Provo a elencare le ragioni principali. La prima sono ovviamente le due guerre in corso. Non due guerre qualunque, dal momento che coinvolgono potenze nucleari. In entrambe, Washington ha un ruolo cruciale ed entrambe avranno un riflesso nel voto presidenziale di novembre. La seconda ragione è l’emersione della Cina come potenza geopolitica globale. La posizione unica degli USA, l’assoluta supremazia militare e finanziaria americana degli scorsi decenni non è più fuori discussione. Ma la competizione con la Cina genera una situazione di permanente conflittualità, che ha riflessi negativi sul funzionamento delle istituzioni multilaterali, a cominciare dalle Nazioni Unite».
La tensione tra democrazie e autocrazie
Credo sia la prima e principale preoccupazione di Emma Bonino, inseparabile da sempre, cioè in questa congiuntura come in tutta la sua storia politica e personale, dall’impegno per il rafforzamento delle istituzioni di diritto internazionale. Qualunque ordine pacifico a livello mondiale non può non passare di lì. E invece nuove fratture emergono: «La linea di divisione corre oggi fra Occidente e Global South, quella che viene chiamata “West and the Rest”, anche declinata come tensione crescente fra democrazie e autocrazie. È una linea di frattura che si va allargando, con cifre che fanno riflettere, con una demografia largamente deficitaria in Occidente di fronte a miliardi di giovani nel sud del mondo e all’organizzazione incalzante di nuovi gruppi di paesi. Come i Brics allargati, che adesso rappresentano una quota assai rilevante dell’economia mondiale». Sono preoccupazioni che Emma Bonino non mi sembra proponga in una chiave cupamente pessimista. Il senso non mi pare sia: prepariamoci al peggio, respingiamo i barbari alle porte, rinchiudiamoci nella fortezza europea. Anche perché non è più una fortezza, se mai lo è stata, e soprattutto non sarebbe più Europa se interpretasse il suo ruolo, e la sua presenza nello spazio geopolitico globale, in termini di chiusura. A pensarci, però, è proprio l’Europa, più di ogni altra regione del mondo, ad essere più a rischio nell’affrontare il disordine globale. «Perché siamo esposti a sollecitazioni a corrente alternata, tra spinte a un ulteriore allargamento da un lato, e scetticismo sul progetto europeo dall’altro».
L’Europa a due velocità
Ovviamente, le idee per tracciare una nuova rotta non mancano. Nel libro-conversazione appena uscito, firmato da Emma Bonino insieme a Pier Virgilio Dastoli (e con Luca Cambi), «A che ci serve l’Europa», da Marsilio, si torna a indicare la strada dell’Europa a due velocità, sul modello di quello che si è fatto in passato con l’area Schengen o con l’euro, a cui non aderiscono tutti i paesi dell’Unione. Un tema intorno a cui riunire un gruppo più ristretto di paesi potrebbe essere la difesa, dove è difficile immaginare un sistema che possa funzionare con la partecipazione di tutti i paesi aderenti all’UE. Un altro potrebbe essere il Mediterraneo, ragiona Bonino, le cui problematiche investono in misura ovviamente diversa i paesi del Sud e del Nord Europa, e dove si dovrebbe provare a costruire una comunità euro-mediterranea coinvolgendo anche la sponda africana. Quadrante delicatissimo in cui le responsabilità europee presumibilmente aumenteranno nei prossimi anni, e di cui forse si può considerare un’avvisaglia la decisione Usa di lasciare la protezione del fronte sud della Nato alle Marine militari di Francia, Turchia e Italia, dopo il ritiro delle unità navali statunitensi di queste settimane. «È anche per questo che dico che una crisi, o una involuzione importata dagli Stati Uniti, potrebbe avere effetti devastanti anche da noi».
Qual è, allora, la situazione a Washington? Gli ultimi avvenimenti sembrano avere delineato abbastanza nettamente il quadro. Nel discorso sullo stato dell’Unione, Biden è andato all’attacco di Trump su questioni come immigrazione, aborto, Medio Oriente, scherzando sulla sua età e mostrandosi pronto alla sfida, mentre dall’altra parte Trump ha sbaragliato il campo repubblicano vincendo quasi ovunque nelle primarie del super Tuesday. L’unica rivale che era rimasta in campo, Nikki Haley, si è ritirata poco dopo i risultati.
L’età di Biden e il potere di Jake Sullivan
«Una situazione bloccata. A settembre scorso, in un articolo sul Washington Post che definirei coraggioso, David Ignatius aveva posto la questione dell’età del Presidente. Che comincerebbe il secondo mandato a ottantadue anni e lo terminerebbe a ottantasei. Sono l’ultima ad avere titolo ad aprire un dibattito sull’età avanzata di Joe Biden, per evidenti ragioni anagrafiche, ma è un dato oggettivo, che ha alimentato per settimane e mesi un dibattito sotterraneo. Non solo sulle condizioni di salute di Biden, ma anche sulla figura del Vicepresidente, chiamata a prendere la guida in caso di incapacità temporanea o permanente del Commander in Chief. La Vicepresidente Kamala Harris è considerata una cattiva scelta perché personalità politica incapace di guadagnare consensi nel partito e nel paese. Il dubbio che in questi casi sorge è quanta parte del processo decisionale sia, o sarà, effettivamente nelle mani del Presidente, e quanta invece nelle mani dei suoi stretti collaboratori. Per citarne uno particolarmente influente, mi domando se il Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Jake Sullivan, non sia sempre più decisivo nelle scelte di politica estera, anche più del Segretario di Stato, Antony Blinken. Ma la finestra temporale indicata da Ignatius per mettere in campo una soluzione alternativa al ticket Biden-Harris sembra tuttavia essersi chiusa, ormai».
Chiuso il discorso anche in casa repubblicana, direi. «Lì la situazione era inversa. Numerosi candidati ai nastri di partenza, ma la nomination non è mai stata veramente in discussione, né Trump ha mai dato segno di ripensarci. E i maggiorenti repubblicani gli sono andati dietro. Va detto peraltro che gli elettori americani non sembrano affatto terrorizzati dalle stranezze di Trump, anche le più estreme. L’intero continente americano sembra anzi avere una soglia di tolleranza per questo tipo di leadership assertive, quando non stravaganti, molto più elevata degli standard europei». I quali standard, però, si sono probabilmente abbassati anche da noi, negli ultimi tempi. Ma è chiaro che non è solo la stranezza o la stravaganza ad avvicinare figure come Trump, Milei, Boris Johnson o Viktor Orbán. Figure che spiccano a tal punto da mettere persino in ombra la diversità dei regimi politici che sono chiamati a guidare: è forse il segno che, all’ombra di simili personalità, si appanna sempre di più e passa in secondo piano la qualità democratica dei diversi sistemi politici. Le similarità di condotte, ideologie, comportamenti suonano come un campanello d’allarme.
«E il campanello suona più forte negli USA, visto il vantaggio (lieve, al momento) che i sondaggi riconoscono a Trump nei cosiddetti swing States, gli Stati in bilico in cui probabilmente si deciderà la corsa nel 2024: tre Stati dei Grandi Laghi – Pennsylvania, Michigan, Wisconsin – e tre Stati del Sud – Arizona, Georgia, Nevada –. Se gli eventi prendessero questa piega, una nuova Presidenza Trump potrebbe essere devastante per l’UE. In estrema sintesi: Trump è certamente avverso al sistema di relazioni multilaterali, è decisamente un detrattore dell’Unione europea e sui suoi radar sembrano esserci solo gli Stati nazionali; infine, è apertamente scettico sul futuro della Nato. E non è il solo».
Questo piccolo inciso mi fa sobbalzare. L’atlantismo non è più l’asse principale della politica estera occidentale? In Italia non è mai venuto meno, non in tempo lontani e neppure in tempi recenti, nonostante formule politiche e maggioranze tinte di giallo e di verde, molto meno salde in tema di alleanze internazionali. «Ma lei ricorderà le dichiarazioni di Macron di qualche anno fa: bisogna essere lucidi, la Nato è in uno stato di morte cerebrale, disse. Era il 7 novembre 2019. Poi c’è stata qualche guerra e si è visto quanto se ne possa fare a meno».
Ma sul piano politico i nodi rimangono. «In effetti, anche l’amministrazione Biden non ha puntato a un percorso di consolidamento delle istituzioni multilaterali e stessa cosa direi delle relazioni dell’America con l’Unione europea, malgrado una retorica molto positiva sui rapporti con l’Europa e anche un’ottima relazione personale del presidente americano con Von der Leyen». Ma qual è la forza dell’America oggi? Sono di queste ore le dure parole di Biden, sul «grande errore» di Benjamin Netanyahu, che danneggia Israele, la sua credibilità internazionale, non proteggendo abbastanza i civili. «Teniamo fermo anzitutto che il sostegno a Israele, tanto più dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso, rimane immutato. Dopodiché neanche io so quanto sia efficace una presa di posizione di Biden, in quella crisi. Vorrei saperlo, ma non lo so».
La minaccia Trump
Non che la cosa dipenda invece dall’Europa. Anzi l’Europa pesa sempre meno non solo negli scenari globali ma anche nel dibattito politico interno agli Stati Uniti. Per dirla in breve: a Washington non si vincono né si perdono le elezioni a seconda della posizione che si prende verso Bruxelles. Ma la preoccupazione di Emma Bonino è più profonda: «Al momento, anche a causa delle pessime relazioni con Russia e Cina, l’intero sistema multilaterale è in panne. In panne sistemiche: dalle Nazioni Unite all’Organizzazione mondiale del commercio, alla Banca mondiale, all’OCSE: non funziona più nulla. Il ritorno di Trump, in questo scenario, con il suo approccio esasperatamente transattivo, anche alle relazioni internazionali più spinose, rischia seriamente di decretare la fine del sistema organizzato di relazioni del dopoguerra. Un sistema in cui l’UE, fondata su un patto istituzionale profondamente strutturato, ha prosperato e di cui ha bisogno».
Ian Bremmer lo ha definito il G-0, e zero significa che non ci sono attori politici in grado di dare forma a un ordine stabile, anche se i rischi geopolitici non hanno portata globale ma si scaricano a livello regionale, dall’Europa al Medio Oriente. È una conseguenza di rotte tracciate dagli Stati (anche occidentali) sulla sola base degli interessi nazionali. «È quel che si vede anzitutto in America. Nella posizione sull’Ucraina i repubblicani ostacolano sul bilancio le scelte dell’Amministrazione a sostegno di Kiev. Biden disse che l’appoggio USA sarebbe stato “as long as it takes”. Che, cioè, sarebbe durato tutto il tempo necessario a respingere Mosca, ma l’arrivo di Trump metterebbe fine a questo indirizzo – negli Usa e forse anche nella Nato –, ponendo gli europei di fronte a dilemmi di non facile soluzione in tema di munizioni, armamenti, di scelte finanziarie e politiche».
Mi tornano in mente le parole di Mario Draghi di qualche settimana fa: «Mi hanno chiesto al termine di Ecofin quale sia l’ordine delle riforme necessarie per l’Ue. Quale sia l’ordine non lo so, ma per favore, è il momento di fare qualcosa, decidete voi cosa ma per favore, si faccia qualcosa, non si può passare tutto il tempo a dire no». È un appello che condivide? «Non solo lo condivido. Ma ho provato a dire, proprio nel libro che citava, da dove cominciare a fare qualcosa. Dalla riforma della governance dell’Unione. Dal superamento del principio di unanimità. Dalla differenziazione nelle forme della cooperazione su temi decisivi come quelli economici e della sicurezza».
Cominciare a fare qualcosa. Qualcosa anche oltre gli appelli. Non c’è politico meno rassegnato e più combattivo di Emma Bonino. Nonostante tutto. Nonostante le difficoltà sul piano internazionale su cui non si stanca di richiamare l’attenzione. Nonostante l’incidente che la tiene a casa. Nonostante la pioggia che, imperterrita, continua a scendere sulla Capitale.