Alla riunione Ecofin del 24 febbraio scorso, Mario Draghi ha avvertito che in passato l’Europa ha prosperato grazie all’energia russa, alle esportazioni verso la Cina e alla difesa degli Stati Uniti con la Nato ma ora, per colmare i recenti forti divari rispetto alle altre economie, l’Europa dovrà investire risorse finanziarie enormi in breve tempo. Per di più, la transizione verde rende urgente modificare le catene globali del valore (GVC). Per avere una solida copertura finanziaria, non basteranno le già scarse risorse dei singoli Stati membri, occorreranno almeno 500 miliardi l’anno, a cui vanno aggiunte enormi risorse per la difesa e per gli investimenti produttivi. Insomma, sarà prezioso il rapporto sulla competitività che Ursula Von der Leyen ha chiesto a Draghi.

L’Osservatorio delle Imprese della Facoltà di Ingegneria civile e industriale della Sapienza di Roma per fare cosa utile ha pubblicato un rapporto sull’Europa articolato in cinque capitoli, uno per ciascuno dei temi indicati da Draghi, più un inquadramento delle questioni. Nell’inquadramento viene fatto riferimento all’indice di competitività IMD composto da 335 parametri per 64 paesi nel mondo. Oggi due paesi europei (Danimarca e Irlanda) stanno ai primi due posti della graduatoria, tre (con l’Olanda) nei primi dieci. La posizione media dell’Europa a 27 è rimasta assolutamente invariata, ma al suo interno 13 paesi l’hanno migliorata, 2 l’hanno mantenuta invariata, 11 l’hanno peggiorata. Tra questi ultimi, Germania e Francia l’hanno peggiorata per bassa efficienza del governo, debolezza nella politica fiscale (come anche l’Italia), scarsa resilienza delle imprese e, in Italia, insufficienza delle infrastrutture energetiche. Sono migliorati alcuni paesi nordici e dell’Est.

Le ragioni degli insuccessi europei nella Difesa sono state così spiegate da Andrea Locatelli nel capitolo Difesa: le istituzioni sono frammentate e c’è scarsa propensione a coordinare le politiche nazionali, pesa l’assenza di un’autorità dall’alto; gli Stati europei hanno una spesa militare limitata e sub-ottimale, un terzo di quella americana; i singoli Stati adottano politiche unilaterali di acquisizione militare, favoriscono i rispettivi campioni nazionali, se ce l’hanno. Purtroppo, le industrie europee non possono competere con quelle americane e presto non potranno farlo neanche con quelle cinesi. In un momento di crisi come quello attuale, anche di fronte al rischio di una rottura della Nato ad opera di Trump, come temuto da Romano Prodi sul Messaggero del 17 febbraio, l’UE e gli Stati membri dovranno impegnarsi in modo cooperativo a colmare i gap esistenti, come auspicato da Cinzia Battista sul Mattino del 26 febbraio. L’Italia potrà trarre benefici superiori ai costi, così come per la missione navale UE nel Mar Rosso, il cui comando operativo è assunto dalla Marina Italiana. In ogni caso, lo sforzo economico e finanziario in atto è di sicuro necessario ma non sufficiente a conseguire un’autonomia strategica: anche solo per raggiungere la soglia del 2% le spese complessive della difesa dovrebbero aumentare del 24%, per incrementare le capacità militari della UE in un orizzonte temporale di anni, se non di decenni.
Tre sono i fattori chiave per una competitività commerciale, ha sostenuto Pierluigi Montalbano nel capitolo Commercio internazionale: la produttività del lavoro, la partecipazione alle catene globali del valore, la transizione verde. Negli ultimi 20 anni la produttività globale si è ridotta, specie nelle economie più industrializzate. In Italia nel 2000-2022 si è avuto un +0,32% medio annuo rispetto all’1,21% dell’area UEM. La produttività è cresciuta di più nei settori esposti alla concorrenza internazionale. Nei servizi è stata pressoché nulla. A partire dagli anni ‘90, l’Italia ha perso capacità di produrre ed esportare valore aggiunto nei settori manifatturieri tradizionali, dove impiega sempre più beni intermedi importati da paesi emergenti. Le catene globali del valore si sono dimostrate più robuste di quanto si pensasse: gli scambi di beni intermedi sono tornati ai livelli pre-crisi 2008. Le produzioni europee avrebbero bisogno di collocarsi nelle fasi a più alto valore aggiunto delle catene. Nell’ambito dell’economia regionale, si assiste a una polarizzazione “centro-periferia” (dell’Europa Centro-Orientale ma anche dell’Europa mediterranea) che restano economie manifatturiere specializzate nelle fasi a più basso valore aggiunto.

Nella competizione tecnologica internazionale, grazie alla duplice transizione digitale e verde (l’UE diverrebbe il primo continente al mondo ad impatto climatico zero entro il 2050), le normative ambientali più stringenti promuovono tecniche innovative capaci di migliorare le performance delle imprese, ma restano due questioni: occorrono politiche commerciali che siano coerenti con la transizione verde senza però penalizzare le filiere regionali. la Cina possiede il 37% delle riserve mondiali di terre rare e ha acquisito nuovi diritti di estrazione in Africa, dove ci sono ulteriori giacimenti di terre rare. È stato stimato in 1,7 miliardi di euro l’investimento necessario a produrre il 20% del fabbisogno di terre rare per soddisfare la strategia europea al 2050.
La causa del cambiamento climatico va cercata, ha scritto Livio De Santoli nel capitolo Transizione energetica, non tanto nel consumo di fonti fossili, quanto nell’intero quadro dell’era del progresso, classicamente inteso, il quale ha ampliato le diseguaglianze e ha penalizzato la popolazione mondiale più povera e non responsabile del cambiamento climatico. Il modello fondato su fonti rinnovabili di energia e su efficienza energetica oggi è il cuore di una inevitabile, più generale politica di cambiamento. Il Net-Zero Industry Act (marzo 2023) istituisce un quadro per la fabbricazione di prodotti tecnologici in grado di creare zero emissioni nette o almeno il 40% di diffusione entro il 2030, di aumentare di quasi 4 volte la diffusione delle energie rinnovabili e di 15 volte la produzione globale di veicoli elettrici entro il 2050. Il flusso annuo medio di investimenti in energia pulita dal 2017 è stato pari a 1.200 miliardi di dollari, molto meno dei 4 mila miliardi di euro previsti. Quelli in combustibili fossili, invece, con 800 miliardi di dollari hanno superato il massimo tollerabile per raggiungere le emissioni zero entro il 2050. La decarbonizzazione imporrebbe una progressiva eliminazione dei sussidi ambientalmente dannosi che sfiorano i 7mila miliardi l’anno, il doppio di quanto necessiterebbe la transizione energetica. La Commissione Europea si è impegnata su investimenti aggiuntivi per oltre 620 miliardi di euro l’anno. La transizione richiede investimenti senza precedenti.

Nel capitolo Regole fiscali, Giuseppe Pisauro ha spiegato che, a fronte di un bilancio federale poco significativo, il fiscal framework dell’Unione è costituito dalla somma dei vincoli ai singoli Stati ed è incentrato sulla mera stabilizzazione finanziaria. La Commissione a novembre 2022 propose di sostituire i vecchi indicatori con piani a quattro o a sette anni, un ritmo più lento di riduzione del debito, ma un rigido rispetto degli impegni. A dicembre 2023 l’Ecofin ha cambiato quella proposta, ha introdotto un ibrido di improbabile funzionalità. Tutti i paesi dovrebbero tendere con uno sforzo fiscale costante verso il 60% del debito e verso un disavanzo strutturale dell’1,5%. Tenuto conto che il debito oggi supera il 92% del Pil per l’euro zona nel suo complesso, si avrebbe un’intonazione eccessivamente restrittiva della politica fiscale, impossibile per soddisfare le esigenze dello sviluppo sostenibile. L’alternativa sarebbe affidare questi compiti a un bilancio comunitario potenziato. Ma le risorse proprie dell’Unione dovrebbero aumentare moltissimo subito. Un approccio più ambizioso sarebbe il modello Next Generation per finanziare la transizione energetica e digitale anche con l’emissione di debito comune. A questa conclusione è pervenuto anche Paolo Gentiloni il 18 marzo in un intervento alla Bocconi. Nel frattempo, però, i paesi procederanno in ordine sparso.
Il Consiglio europeo ha il compito di definire priorità e orientamenti politici generali dell’Unione. Poiché è dimostrato che l’Europa è un progetto incompiuto per mancanza di presupposti, questo Rapporto della Sapienza suggerisce che il Consiglio: elabori un disegno strategico di difesa coerente con il framework transatlantico e promuova il procurement congiunto, anche con paesi extra-UE. A tal fine, è necessario incrementare il ruolo dell’Agenzia Europea di Difesa (EDA); promuova produzioni europee a più alto valore aggiunto delle catene produttive e commerciali, nonché politiche commerciali che pur coerenti con la transizione verde non penalizzino le filiere regionali, elabori progetti alternativi di produzione di terre rare capaci di mettere in sicurezza le nuove filiere produttive green; ottenga che gli Stati varino interventi correttivi al processo di decarbonizzazione fissato dalla normativa, coordini gli sforzi sugli investimenti in energia pulita e il contenimento di quelli in energia fossile; capovolga la logica delle Regole fiscali, ponendo al centro dell’attenzione una copertura equilibrata del fabbisogno finanziario per gli investimenti necessari e proponga al nuovo Parlamento europeo strumenti istituzionali per realizzare queste politiche, raccogliendo con quarant’anni di ritardo le sollecitazioni lanciate da Altiero Spinelli nel suo ultimo discorso al Parlamento europeo.

Riccardo Gallo

Autore