La carriera di Scaroni più o meno finisce lì, anche se riceve nuovi incarichi e addirittura assume la presidenza del Milan, succedendo a Berlusconi, e la vicepresidenza della Rothschild. Contemporaneamente l’Eni subisce un colpo molto serio. Anche se riesce a riassorbirlo, e si riprende. L’impressione è però che la magistratura abbia provato a radere al suolo l’Eni e di essere andata vicino all’obiettivo.

Quale accusa si muoveva a Scaroni? Di avere pagato una tangente per vincere la concorrenza dei francesi e assicurare all’Eni un appalto miliardario in Algeria, nonostante l’ostilità del governo algerino. Certo, non è una accusa infamante, ma nel clima italiano di questi anni – grillino, anticastista, moralista, giacobino – lo è sùbito diventata e Scaroni ha pagato caro. I suoi manager ancora più caro. È qui che viene in mente Enrico Mattei. Qualcuno si ricorda di Mattei? L’uomo che inventò l’Eni, ne fece un colosso, sfidò a viso aperto i giganti americani, e francesi e inglesi, quelle che si chiavano le “Sette Sorelle” cioè le sette più grandi compagnie petrolifere del mondo, le affrontò, si rifiutò di sottomettersi e le mise con le spalle al muro.

Pagando tangenti, forse? Finanziando partiti? O qualche giornale? Sì proprio così: Mattei, che veniva dalla Dc ma era molto laico e che era stato uno dei grandi leader della Resistenza, pagava tangenti tutti i giorni, in patria e all’estero, finanziava i partiti e i giornali e se ne vantava. Lui, per esempio, diceva che i partiti sono come dei taxi: uno ne prende uno, lo usa, paga la tariffa e scende. Mica deve sposarsi il taxista, ha un rapporto commerciale col tassista.

A me viene la pelle d’oca se penso a dove sarebbe oggi Mattei, se vivesse ai giorni nostri e con la magistratura di oggi e con la classe politica codarda di oggi: in prigione. Si sarebbe beccato almeno una trentina d’anni. In prigione dove è stato Scaroni e dove è stato un altro grande presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari, anche lui era un uomo onesto che si occupava di economia e di politica, e fece molto per il suo paese. Lo gettarono in cella, nel 1993, restò lì per diversi mesi; il Pm, alla vigilia di agosto, lo interrogò ma non ricevette una confessione e sostenne che solo una confessione poteva giustificare la concessione della libertà provvisoria.

Allora (come oggi) si usava così: ti metto in carcere finché non confessi. Il Pm diede parere non favorevole alla scarcerazione. La decisione spettava al Gip, ma il Gip non si decideva. Cagliari stava male e si vide senza futuro, prese un sacchetto di plastica, se lo calò dalla testa e poi lo strinse sul collo. Morì così, soffocato proprio di fronte a una finestrella con le sbarre.

Il Pm che chiese la non scarcerazione di Cagliari oggi è procuratore generale aggiunto a Milano ed è lui che dirige il pool che ha fatto appello contro l’assoluzione in primo grado di Scaroni. Sapete come si chiama? Fabio de Pasquale. La Corte ha definito inammissibile il suo appello. E ha assolto tutti, ma proprio tutti: ha detto che non è stata pagata nessuna tangente.

Ora, di fronte a queste sentenze – così nette, così chiare: la tangente non c’è stata, il ricorso in appello dall’accusa era inammissibile, la condanna di primo grado di diversi dirigenti infondata – non viene solo da ragionare sulla forza della sopraffazione della macchina della giustizia sui singoli. ma anche sull’enorme potere che la nostra società consegna nelle mani di alcuni magistrati (pensate a questo magistrato che decise di non scarcerare Cagliari e dopo 25 anni cerca di mettere in prigione Scaroni, e pensate come nessuno, proprio nessuno sia in grado di fermarlo, di limitare la sua strapotenza) .

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.