Eni, 30 anni di attacchi dal Pm che nessuno riesce a fermare

Paolo Scaroni è stato assolto. Un’altra volta. E sono stati assolti tutti i dirigenti dell’Eni e della Saipem che erano finiti alla sbarra per corruzione internazionale, e avevano ricevuto condanne, o richieste di condanne, piuttosto pesanti, dai quattro ai nove anni. Anche per Scaroni – che era stato assolto già in primo grado –  la richiesta dei Pm dell’appello era pesantissima: più di sei anni. Se fosse stata accolta avrebbe dovuto sperare nella Cassazione per non finire in carcere, a 74 anni.

Chi è Paolo Scaroni si sa. Un manager di primissima fila, uno di quelli che hanno fatto la storia economica del nostro Paese. Non è mai stato tanto simpatico ai Pm, questo è certo. Gli danno la caccia da un quarto di secolo. Il suo nome, in modo un po’ sacrilego, potrebbe essere persino accostato a quello di Enrico Mattei, ma di Mattei parliamo tra poco. Sotto la direzione di Scaroni, prima l’Enel, nei primi anni duemila, e poco dopo l’Eni, hanno raggiunto dei risultati straordinari. E se l’Italia è un paese potente, e ricco, in qualche misura lo dobbiamo anche a lui. I capi dell’Eni (Scaroni è stato amministratore delegato tra il 2005 e il 2013, e in quegli anni, come anche adesso, il vero comandante era l’amministratore delegato) nella storia d’Italia hanno sempre svolto un compito delicatissimo non solo in economia, ma anche in politica estera. Scaroni, negli anni dell’Eni, è stato quasi un ministro degli esteri. E poi…

E poi la vita di Paolo Scaroni si è divisa in due: l’impegno del manager e l’impegno a difendersi nei processi. Scaroni, all’epoca dei suoi quarant’anni, manager considerato vicino al partito socialista, non scampò a Tangentopoli. Nel 1993 lo catturarono i Pm del pool e lo fecero sbattere in galera. Se la cavò bene, si rialzò, tornò ai vertici delle aziende pubbliche e private, perché le sue capacità sono sempre state indiscusse, ma sempre – sempre – con i Pm alle calcagna.

E nel 2013, quando l’Eni volava e il successo di Scaroni era all’apice, lo attaccarono di nuovo: avviso di garanzia per corruzione internazionale, arrestati alcuni dei suoi uomini, azzoppato. In seguito a quell’avviso di garanzia, Scaroni deve lasciare l’Eni e il vertice dell’ente viene smontato come un trenino lego, direbbe Gratteri.

La carriera di Scaroni più o meno finisce lì, anche se riceve nuovi incarichi e addirittura assume la presidenza del Milan, succedendo a Berlusconi, e la vicepresidenza della Rothschild. Contemporaneamente l’Eni subisce un colpo molto serio. Anche se riesce a riassorbirlo, e si riprende. L’impressione è però che la magistratura abbia provato a radere al suolo l’Eni e di essere andata vicino all’obiettivo.

Quale accusa si muoveva a Scaroni? Di avere pagato una tangente per vincere la concorrenza dei francesi e assicurare all’Eni un appalto miliardario in Algeria, nonostante l’ostilità del governo algerino. Certo, non è una accusa infamante, ma nel clima italiano di questi anni – grillino, anticastista, moralista, giacobino – lo è sùbito diventata e Scaroni ha pagato caro. I suoi manager ancora più caro. È qui che viene in mente Enrico Mattei. Qualcuno si ricorda di Mattei? L’uomo che inventò l’Eni, ne fece un colosso, sfidò a viso aperto i giganti americani, e francesi e inglesi, quelle che si chiavano le “Sette Sorelle” cioè le sette più grandi compagnie petrolifere del mondo, le affrontò, si rifiutò di sottomettersi e le mise con le spalle al muro.

Pagando tangenti, forse? Finanziando partiti? O qualche giornale? Sì proprio così: Mattei, che veniva dalla Dc ma era molto laico e che era stato uno dei grandi leader della Resistenza, pagava tangenti tutti i giorni, in patria e all’estero, finanziava i partiti e i giornali e se ne vantava. Lui, per esempio, diceva che i partiti sono come dei taxi: uno ne prende uno, lo usa, paga la tariffa e scende. Mica deve sposarsi il taxista, ha un rapporto commerciale col tassista.

A me viene la pelle d’oca se penso a dove sarebbe oggi Mattei, se vivesse ai giorni nostri e con la magistratura di oggi e con la classe politica codarda di oggi: in prigione. Si sarebbe beccato almeno una trentina d’anni. In prigione dove è stato Scaroni e dove è stato un altro grande presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari, anche lui era un uomo onesto che si occupava di economia e di politica, e fece molto per il suo paese. Lo gettarono in cella, nel 1993, restò lì per diversi mesi; il Pm, alla vigilia di agosto, lo interrogò ma non ricevette una confessione e sostenne che solo una confessione poteva giustificare la concessione della libertà provvisoria.

Allora (come oggi) si usava così: ti metto in carcere finché non confessi. Il Pm diede parere non favorevole alla scarcerazione. La decisione spettava al Gip, ma il Gip non si decideva. Cagliari stava male e si vide senza futuro, prese un sacchetto di plastica, se lo calò dalla testa e poi lo strinse sul collo. Morì così, soffocato proprio di fronte a una finestrella con le sbarre.

Il Pm che chiese la non scarcerazione di Cagliari oggi è procuratore generale aggiunto a Milano ed è lui che dirige il pool che ha fatto appello contro l’assoluzione in primo grado di Scaroni. Sapete come si chiama? Fabio de Pasquale. La Corte ha definito inammissibile il suo appello. E ha assolto tutti, ma proprio tutti: ha detto che non è stata pagata nessuna tangente.

Ora, di fronte a queste sentenze – così nette, così chiare: la tangente non c’è stata, il ricorso in appello dall’accusa era inammissibile, la condanna di primo grado di diversi dirigenti infondata – non viene solo da ragionare sulla forza della sopraffazione della macchina della giustizia sui singoli. ma anche sull’enorme potere che la nostra società consegna nelle mani di alcuni magistrati (pensate a questo magistrato che decise di non scarcerare Cagliari e dopo 25 anni cerca di mettere in prigione Scaroni, e pensate come nessuno, proprio nessuno sia in grado di fermarlo, di limitare la sua strapotenza) .