A bocca asciutta il pm milanese Fabio De Pasquale, e insieme a lui i suoi colleghi dell’Ocse, e anche il governo nigeriano. Tutti in un sol colpo. Perché il “caso Eni” si è chiuso, forse in via definitiva, con la sentenza della Corte d’appello presieduta da Enrico Manzi, che ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dal dottor De Pasquale contro la sentenza che un anno fa aveva assolto i vertici Eni dall’accusa di corruzione “perché il fatto non sussiste”. Lo stesso provvedimento ha stabilito che il governo della Nigeria non ha diritto ad alcun risarcimento in sede civile. Per quel che riguarda il gruppo anticorruzione dell’Ocse, apertamente schierato con il pm De Pasquale fin da un anno fa, quando l’aggiunto della procura di Milano era finito indagato dai magistrati di Brescia per alcune scorrettezze processuali, una bella bacchettata è arrivata dai vertici massimi del tribunale di Milano, il facente funzioni Fabio Roia e il Presidente della corte d’appello Giuseppe Ondei.

Se due Corti di giustizia inglesi e una nigeriana, oltre a sette magistrati italiani, sia giudici che inquirenti, hanno già bocciato l’ipotesi di corruzione internazionale del “caso Eni”, vogliamo insistere ancora? Gli unici ancora fermi lì a crederci sono il pm Fabio De Pasquale e i suoi colleghi del gruppo anticorruzione dell’Ocse che da un anno suonano in consonanza lo stesso violino e la stessa nota: Eni, sia quando era amministratore delegato Paolo Scaroni che con il suo successore Claudio Descalzi, avrebbe corrotto membri del governo nigeriano per ottenere la gestione del giacimento di petrolio Opl 245. E bisogna ammetterlo, anche se l’ipotesi è da brividi, che forse in altri tempi, quando era veramente difficile anche per i giudici più sicuri di sé, mettersi contro la potenza di fuoco della Procura di Milano, le cose avrebbero potuto andare diversamente. Per il giudice Marco Tremolada, prima di tutto, cioè colui che ha presieduto il collegio del primo grado del processo Eni. Per lui, che i due pm d’aula De Pasquale e Spadaro consideravano “appiattito” sulla difesa dell’ente petrolifero, era pronta una polpetta avvelenata.

Il giudice sarebbe stato “avvicinabile” dai difensori degli imputati. Lo ha raccontato il suo collega Paolo Storari (colui che portò la carte sulla Loggia Ungheria a Piercamillo Davigo) nella sua deposizione in procura a Brescia, ricordando di una riunione con il capo dell’ufficio milanese Francesco Greco, la sua vice Laura Pedio e i due pm del “caso Eni”, in cui lo stesso De Pasquale avrebbe detto che voleva far astenere il presidente Tremolada. La polpetta aveva preso la strada di Brescia dove era finita al posto giusto, in pattumiera. Sarebbe stato così, nei decenni del dominio incontrastato dei procuratori dalle mani pulite?

Il secondo passaggio, dopo l’assoluzione di tutti gli imputati perché il fatto corruttivo proprio non esisteva, porta alla Procura generale, dove gli entusiasmi accusatori di Fabio De Pasquale hanno subito un secondo inciampo. Perché Francesca Nanni, prima donna al vertice della Procura generale, alla richiesta del pm, che ovviamente era ricorso in appello contro la sentenza di assoluzione, di essere ancora lui a rappresentare l’accusa nel nuovo processo, aveva opposto un altro nome, quello di un’altra donna, la dottoressa Celestina Gravina, una magistrata molto esperta, che nulla aveva da invidiare al collega. Anzi. La pg si era messa subito a studiare le carte. Ed era rimasta, immaginiamo, esterrefatta. Tanto da arrivare alla conclusione che tutta quanta la costruzione dell’accusa fosse inconsistente, e anche tacciando il pm De Pasquale di atteggiamento “neocolonialista”.

Così, nella prima udienza del processo d’appello, che è iniziato nello scorso luglio, la pg ha annunciato di rinunciare all’impugnazione, ed è stato un fatto clamoroso. Clamoroso ma evidentemente indispensabile, viste le dichiarazioni della stessa dottoressa Gravina.Questo processo deve finire –aveva detto nell’aula attonita- perché non ha fondamento”. “Non avrebbe mai dovuto cominciare”, aveva poi aggiunto. Questi imputati, aveva concluso, “che per sette anni sono stati sotto procedimento, hanno il diritto di veder cessare questa situazione che è contra legem rispetto all’economia processuale e alle regole del giusto processo”. Ma le vie della storia di trent’anni di mani pulite e arroganti sono infinite. Ed ecco arrivare in soccorso i colleghi di De Pasquale all’Ocse, stimolati dal gruppo dei quindici (di cui lui stesso fa parte) che un anno fa avevano già protestato per il procedimento aperto a Brescia.

In una relazione di 118 pagine il gruppo di lavoro sulla corruzione ha preso di mira questa volta, citando espressamente anche il processo Eni, direttamente i giudici italiani perché assolvono troppo. Gli argomenti echeggiano stranamente gli stessi usati dal pm De Pasquale nel suo ricorso in appello al processo Eni. Nel silenzio dell’Anm, si sono però fatti sentire con la voce grossa i vertici del palazzo di giustizia di Milano. E hanno dato una bella lezioncina di diritto, spiegando che cosa significhi assolvere “oltre ogni ragionevole dubbio”. Hanno inviato il documento anche al ministro Nordio e al Csm. Speriamo sia utile, non tanto al guardasigilli, che è sufficientemente ferrato sul tema, ma soprattutto al Csm.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.