Enrico Ruggeri, appena tornato in tv su Raidue con “Gli occhi del musicista” su sei grandi cantautori italiani.

Che esperienza è stata?

Esperienza piacevolissima, un laboratorio ancora aperto e un filo conduttore col programma di tre anni fa “Una storia da cantare” che, essendo in prima serata, ci obbligava a scegliere personaggi ipernazionalpopolari come direbbe Baudo, da Dalla a Celentano, da De André a Battisti. Stavolta con la seconda serata ci siamo potuti inoltrare in una serie di grandi individualità, ce ne sarebbero ancora molte e io non dispero, ad esempio Rino Gaetano, Bruno Lauzi, Jannacci, Gaber, Augusto Daolio. Molti mi hanno chiesto perché non avessi fatto Mango ma Pino è passato alla storia soprattutto per una vocalità incredibile, quindi poi bisogna trovare chi le canta le canzoni.

Tu sei musicista e cantautore, scrittore, presentatore, qual è il linguaggio che preferisci?

A me piace raccontare storie agli altri, ho iniziato a farlo con le canzoni, il mio territorio di partenza. Poi mi sono divertito e mi è piaciuto scrivere libri, condurre programmi in tv e in radio, ma naturalmente la parte più gratificante per l’ego è il concerto. Perché quando scrivi un libro il rapporto è intimo, tu lo scrivi da solo e chi lo legge è isolato in una sensazione bellissima di contatto a due. Ma il concerto, quando sei sul palco con la band e le persone cantano i tuoi pezzi, è il più allettante per l’ego. Però di fatto sono tutte storie che cerco di raccontare.

La settimana prossima inizia il Festival di Sanremo, dove hai vinto con “Si può dare di più” con Morandi e Tozzi nel 1988, e con “Mistero” nel 1993. Cosa secondo te rappresenta il Festival oggi in un momento in cui la fruizione musicale è cambiata, i gusti si sono modificati, la tv stessa non è più il canale preferenziale per farsi conoscere.

Non solo la tv, neanche il giradischi che non esiste quasi più se non per menti alte e raffinate. Persino la radio comincia a stentare, non a caso lì si affermano più i personaggi che le linee musicali. Qualcuno dice “ascolto Linus” non perché ascolta delle canzoni o per fidelizzazione a Radio Dee Jay. Linus e Nicola rappresentano una enclave ascoltatissima per quello che dicono più che per quello che trasmettono. Quindi la fruizione musicale è diventata forse un po’ più frettolosa, sommaria. L’alta fedeltà non è più alta nell’ascolto perché ormai si ascolta dai telefonini, e non lo è nemmeno nell’altro senso perché ci sono tantissimi cantanti con un avvicendamento talvolta anche un po’ brutale, pochi riescono a superare la decade di longevità. Per una stranissima alchimia questo relegare la musica sottofondo avviene per 51 settimane all’anno, perché poi c’è un periodo in cui la canzone miracolosamente e misteriosamente torna ad essere al centro della scena, o meglio lo scenario torna a essere centrale. L’anno scorso in quella settimana ero in vacanza a Barcellona e quindi non ho seguito il Festival, però la mattina prima di fare il turista guardavo il mio tablet. E apprendevo più cose non molto musicali, di quello che ha rotto i fiori e di Morandi che spazzava, quello che ha baciato quell’altro, della moglie di quello che si è offesa perché quello si è preso lo spazio per baciare quell’altro, cioè il pericolo è quando questo tipo di eventi cannibalizza le canzoni.

La musica quindi sembra meno protagonista a favore di un contorno che si prende la scena.

Purtroppo il meccanismo è perverso perché chi organizza il Festival ha il dovere di farlo vedere a quante più persone possibili e Amadeus tutte le volte ha realizzato i desiderata della Rai. L’obiettivo è quello e viene perseguito senza fare prigionieri e a tutti i costi. È il suo mestiere, è lì per fare ascolti, gli ascolti portano interesse e ritorno pubblicitario e non è una priorità che tra vent’anni vengano cantate delle canzoni di questo Sanremo. Nel bene e nel male, se ci mettiamo con carta e penna e facciamo un gioco, tra gli anni 60, 70 e 80 tiriamo fuori duecento canzoni in dieci minuti che conosciamo quasi a memoria.

Amadeus negli ultimi anni ha portato sul palco dell’Ariston proposte che mescolano generi diversi, oltre la classica tradizione melodica. Pop, rock, rap, trap, ragazzi usciti dai talent già ascoltatissimi su Spotify. Chi tra i nuovi ti sembra più interessante?

Non sono molto ferrato devo dirti, è un mio limite piuttosto grave. Quando arrivo a casa e ho voglia di ascoltare musica vado sul sicuro, stamattina ad esempio stavo correndo e ho messo un album degli Yes. Non lo dico con snobismo, è veramente un mio limite, perché la musica che ho ascoltato negli anni della mia adolescenza e oltre mi ha talmente appagato e cambiato che fatico a discostarmene. Qualcuno potrebbe dirmi che lo faccio perché non conosco la musica nuova e avrebbe ragione.

Tu sei anche e soprattutto un grandissimo autore di brani splendidi per le grandi interpreti della canzone italiana, dalla Bertè alla Mannoia. Riesci a raccontare le donne come lo farebbero le donne. Sei semplicemente un ottimo osservatore o c’è altro?

Nelle qualità di chi scrive canzoni ci dev’essere il senso di osservazione, di fantasia. Poi in realtà di me si dice che sono un conoscitore delle donne soprattutto grazie a Quello che le donne non dicono, un incastro riuscito molto bene sulle tante volte che ho sentito delle donne lamentarsi. Io dico spesso che gli uomini sono dei bravissimi corteggiatori, soprattutto i mediterranei e soprattutto gli italiani. Sono un po’ simili ai politici in campagna elettorale. Quando vedo delle trasmissioni pre elettorali li voterei tutti sulla carta, perché c’è gente brava a esprimersi. Per cui il bravo corteggiatore, esattamente come il politico, lascia prospettare un futuro felice: ‘Votami perché la tua vita migliorerà e prendimi perché la tua vita migliorerà’. Una volta poi “ottenuto l’incarico” dalla donna in questione, spesso non è in grado di essere all’altezza delle aspettative. Quindi quella canzone è sulle speranze disattese delle donne e quindi, ahimè, molte donne si sono riconosciute.

Qual è secondo te la più bella canzone italiana mai scritta, dove testo e musica sono sullo stesso livello, la canzone perfetta?

Ce ne sono parecchie e un po’ dipende dallo stato d’animo. Adesso te ne dirò una ma se mi richiamassi tra due ore magari te ne darei altre tre ancora. In questo momento dico che Lontano dagli occhi di Endrigo è un brano dove non vedo un difetto. Musica, testo, arrangiamento, interpretazione, concetto, acume nel descrivere una sensazione che tutti abbiamo provato. Io a volte, leggendo Dostoevskij, dico che lui mi conosce di più di quanto io mi conosca. Più modestamente anche la canzone a volta raggiunge questo risultato, e infatti la cosa più gratificante è quando qualcuno mi scrive che ho raccontato la sua vita senza conoscerlo. Quindi la canzone di Endrigo mette a fuoco una sensazione dolce, struggente, terribile, che è quella dell’assenza e del domandarsi se sia foriera di amore che cresce o che va a scemare.

Non ti chiedo un pronostico sul Festival ma c’è qualcuno da ascoltare secondo te?

Ma sicuramente c’è sempre qualcuno da ascoltare. Questo Festival è molto più simile nella struttura e nella linea editoriale al Festivalbar che non a quelli di baudiana memoria. Io me ne ricordo molti in cui certe canzoni andavano assimilate con calma, ad esempio Aria, un pezzo meraviglioso di Daniele Silvestri, non sanremese e sicuramente non da primo ascolto. O anche Faletti con Signor Tenente, immodestamente anche le mie Nessuno tocchi Caino e Rien ne va plus, o Antonella Ruggiero… mi sembra che manchi quel tipo di canzone d’autore che necessita di più ascolto.

Due anni fa è uscito il tuo bellissimo album La Rivoluzione, un disco che vuole raccontare un po’ la tua generazione. Parafrasando Gaber la tua (nostra) generazione ha vinto o ha perso?

Io non credo che ci siano generazioni che vincono o perdono. Gaber si riferiva a un sogno epico del 68, la generazione che mi ha preceduto, che voleva cambiare il mondo. È anche vero che un po’ tutti vogliono farlo e nessuno ci riesce perché il mondo cambia per una serie di variabili e risultanti molto complesse. La mia generazione ha intanto avuto una musica meravigliosa, forse come nessun’altra. Se ti piacevano i cantautori avevi Dylan, Tom Waits, Cohen. Per il rock i Deep Purple, i Led Zeppelin, i Black Sabbath. Per una musica sofisticata gli Yes, i Genesis, Emerson Lake and Palmer, nel country Neil Young e così via. Abbiamo sofferto gli anni di piombo, la violenza, però ci è servito anche per riflettere molto, ci siamo fatti domande e siamo andati in crisi. Ma il fatto che questo bagaglio abbia portato molti sessantenni a reggere, bene o male, le sorti dei loro paesi testimonia che c’era un humus abbastanza profondo.