Cosa c’è dietro il desiderio, che si è quasi improvvisamente riacceso, del presidente Tayyip Erdoğan di abbracciare il leader siriano Bashar al-Assad? Cosa ha generato questo cambiamento così appassionato dopo dodici anni e mezzo di gelo durante i quali il leader turco ha a lungo etichettato come “assassino” e “macellaio” il dittatore di Damasco tentando di rovesciarlo, armando le forze di opposizione all’interno della Siria? La sua decisa apertura si è manifestata pubblicamente venerdì 28 giugno, dopo aver eseguito le rituali preghiere. “Non c’è motivo per non ristabilire i legami con la Siria”, aveva detto il presidente turco ai giornalisti, affermando inequivocabilmente che Ankara non cerca più il rovesciamento di Assad.
Il leader turco ha alzato la posta in gioco il 6 luglio scorso, durante un volo di ritorno dalla Germania, esprimendo il suo vivo desiderio di vedere le rispettive famiglie “socializzare come avveniva in passato” quando, prima dell’esplosione della guerra in Siria, vi era uno stretto legame.

Ma il percorso verso la riconciliazione è pieno di insidie. Il dittatore di Damasco ha sì espresso la volontà di incontrare il presidente turco, ma ne mette in dubbio lo scopo. “Qual è l’obiettivo?”, si chiede Assad. “È per risolvere i problemi esistenti tra noi? Per migliorare la relazione o riportarla al suo stato naturale? Dobbiamo chiederci perché il rapporto si è deteriorato negli ultimi 13 anni”, Assad ritiene che l’incontro dovrebbe servire a raggiungere obiettivi chiari, ma afferma che le intenzioni di Ankara rimangono poco limpide. Dunque, appare legittimo ritenere che, a meno che non si verifichi un cataclisma, la normalizzazione tra Siria e Turchia non sarà raggiunta in tempi brevi.
I rapporti tra Ankara e Damasco si erano interrotti nel 2011 in seguito all’inizio della guerra civile in Siria. Il governo turco intendeva rovesciare Assad alleandosi e sostenendo le milizie antiregime anche in funzione anticurda.
Ankara controlla dal 2016 parte della Siria settentrionale – dove vivono molti oppositori del regime di Damasco – e ospita più di 3 milioni di rifugiati siriani.

Vi è un grosso scoglio da superare: Assad non intende andare avanti nella riconciliazione senza la garanzia del totale ritiro dell’esercito turco dalla Siria nordoccidentale e la fine del suo sostegno alle numerose milizie arabe-sunnite sue alleate che Damasco considera terroristiche. Invece la Turchia vorrebbe tre cose: che le quaranta formazioni ribelli unite sotto l’ombrello di Esercito nazionale siriano, alleato di Ankara, siano inglobate e protette nelle Forze armate di Damasco; vuole che il regime siriano cooperi anche militarmente per eliminare dal suo confine sudorientale l’amministrazione autonoma de facto della Siria nordorientale dei curdi di Rojava, “apoisti” (sostenitori del leader del Pkk Abdullah Öcalan), da cui la Turchia si sente minacciata, ma preziosi alleati degli Stati Uniti nella guerra contro l’Isis. E infine il governo turco vorrebbe rimandare indietro quanti più siriani possibile che ospita nel proprio paese.

È vero che la decisione di normalizzare i rapporti tra Siria e Turchia non è avvenuta all’improvviso, ma è stata presa diversi anni fa.
Il conflitto a Gaza, tra le altre cose, ha cambiato i calcoli di Ankara, Damasco e anche di Teheran. Assad è profondamente nervoso, così come l’Iran, per un possibile guerra su larga scala tra Israele ed Hezbollah in Libano e sono anche preoccupati per l’esito delle elezioni americane: se non dovesse vincere Trump, probabilmente la presenza americana in Siria si protrarrà.
Erdoğan ha cercato l’aiuto del primo ministro iracheno Sudani per ricucire i legami con Assad quando si recò a Baghdad ad aprile. L’Iraq svolse un ruolo simile nella riconciliazione dell’Arabia Saudita con l’Iran e nel riunire le parti a Pechino. Perché dunque non aiutare a mediare un incontro tra Assad ed Erdoğan da tenersi a Mosca?

Il percorso verso la riconciliazione è disseminato di insidie e contraddizioni. Qualunque sia l’esito del voto americano, il problema siriano della Turchia richiederà decenni per essere risolto. La maggior parte dei circa 3,5 milioni di siriani ospitati dalla Turchia difficilmente tornerà in Siria e Assad dal canto suo non li vuole indietro.
Gli eventi di Kayseri da soli dimostrano che è giunto il momento per Erdoğan di chiudere il capitolo sulla Siria.
La pressione è aumentata riguardo ai siriani che vivono sotto protezione temporanea in Turchia. Il 30 giugno di quest’anno, a causa di una voce riguardante presunte molestie sessuali nei confronti di una bambina che avrebbe compiuto un immigrato siriano, vi sono state violente aggressioni contro abitazioni e esercizi commerciali di siriani a Kayseri, nell’Anatolia centrale e tutto ciò ha avuto eco in Siria.
Il 1° luglio, nel nordovest siriano, ad Afrin, a Idlib, ad Azaz, Jarablus, Al-Rai e Marea, sono stati presi di mira camion, basi militari, istituzioni come l’ufficio del governatore e gli uffici postali turchi.

Le azioni militari della Turchia contro le aree autonome controllate dai curdi si sono limitate ad Afrin, Tel Abyad e Ras al-Ayn. Il piano di stabilire una “zona sicura” di 30 km lungo il confine si è scontrato con il semaforo rosso degli Stati Uniti e della Russia. Di conseguenza, l’operazione su larga scala annunciata da Erdoğan per l’estate del 2024 per proteggere la zona cuscinetto in Iraq e Siria non si è concretizzata a causa delle condizioni prevalenti.
Il sogno di Erdoğan di “costruire città per i rifugiati” con fondi internazionali non si è avverato. Erdoğan non ha trovato la cooperazione che cercava sulla Siria tra i suoi alleati occidentali.
La previsione che se Israele dichiarasse guerra al Libano, il fuoco che si scatenerebbe travolgerebbe la Siria ha costretto Ankara a rivedere i rischi che sta correndo sul campo perché potrebbero aumentare le linee di faglia già attivate in questi giorni al confine turco-siriano.