Il saggio dell'ex direttore di Santo Stefano
Ergastolo e carcere, la lezione di Perucatti: la condanna va regolata con la condotta del detenuto
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1. Chi studia certi temi sa bene che la collana «Diritto penitenziario e Costituzione» – diretta con passione e competenza rare dal costituzionalista Marco Ruotolo – non ospita titoli a caso. Vale anche per il più recente: Eugenio Perucatti, Perché la pena dell’ergastolo deve essere attenuata (Editoriale Scientifica, Napoli 2021, pp. XLIX-562), copia anastatica di un volume introvabile e dimenticato che l’Autore editò in proprio nel 1955.
Perché ripubblicarlo? Benché mostri redazionalmente i segni del tempo, il libro ha una sua stupefacente attualità. Ora come allora è giunto il momento di risolvere «il cosiddetto scottante problema dell’abolizione o attenuazione dell’ergastolo». E oggi più di ieri si rivolge «soprattutto ai Governanti e ai Legislatori», avanzando proposte di riforma nate da una lunga esperienza nel «mondo dell’educazione, delle comunità, della giustizia, della polizia e delle carceri».
2. Chi era, infatti, Eugenio Perucatti? Ecco il suo «curricolo professionale»: militare, maestro elementare, istitutore di riformatorio e di convitti religiosi, ufficiale di pubblica sicurezza, avvocato, direttore di carcere, dirigente penitenziario. Cattolico fervente, padre di 10 figli, detenuto per ordine degli Alleati («addebito? Mai saputo»), capace di una spericolata evasione durante il trasferimento dal carcere di Perugia. Una vita carica di esperienze, come racconta la biografia scritta dal figlio Antonio (Quel «criminale» di mio padre. Storie di redenzione umana, Ultima Spiaggia, Genova-Ventotene 2014). Un’eccedenza esistenziale che si rispecchia nella forma del suo libro: un appassionato, sovrabbondante zibaldone articolato in 4 parti («Documenti», «Polemiche», «Esperienze», «Nuovi orizzonti dell’esecuzione penale»).
Quando lo scrive, Perucatti ha 45 anni ed è direttore dell’ergastolo di Santo Stefano di Ventotene. Lo dirigerà dal 1952 al 1960, trasformandolo in un pionieristico esperimento penitenziario coerente con la neonata Costituzione secondo cui «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» (art. 27, comma 3). A buon diritto potrà scrivere che «questo Stabilimento non è più la tomba dei vivi» nonostante il carcere borbonico con la sua architettura a Panopticon, oggi al centro di un progetto pubblico di recupero e di valorizzazione.
3. Tema centrale del libro è il superamento del carcere a vita, perché – come già scriveva Luigi Settembrini, cent’anni prima recluso a Santo Stefano – una pena eterna «è cieca e spietata vendetta», «ingiusta perché perpetua», crudele in quanto senza «un fine e una speranza». Riguardo all’ergastolo Perucatti non è abolizionista, pur essendo aperto a tale soluzione («se i Legislatori propenderanno per l’abolizione ben venga il nuovo orientamento e ne faremo l’esperimento»). Si colloca semmai al centro, contro gli opposti estremismi degli «umanitaristi» e dei «conservatori irriducibili», proponendo una «pena condizionatamente perpetua». La durata di qualsiasi condanna – sostiene Perucatti – andrebbe correlata alla condotta del reo durante la detenzione, così che «ognuno si faccia artefice della propria sorte». Vale anche per l’ergastolano, cui bisogna offrire «la possibilità di riscattarsi, modificandosì».
Coerentemente, propone una riforma dell’art. 22 c.p. che consenta dopo 25 anni di detenzione (30 in caso di cumulo di condanne) la scarcerazione e la libertà vigilata dell’ergastolano che ha dato prova di ravvedimento. Ipotizza una più bassa soglia temporale se all’epoca del commesso delitto il reo era incensurato o minore d’età, o se detenuto fino a età avanzata. È l’idea di pena perpetua «riducibile» oggi avallata dalle Corti dei diritti e presente nella legislazione di molti paesi europei, Italia inclusa. Redivivo, Perucatti sarebbe a fianco della Corte costituzionale che nel maggio scorso ha prospettato l’illegittimità dell’ergastolo senza scampo, perché ostativo alla liberazione condizionale (ord. n. 97/2021).
4. L’attualità del libro è anche nella galleria di argomenti con i quali Perucatti si misura, confutandoli. «Così sentiamo dire (…) da cronisti e da uomini di partito in cerca di facile celebrità» che il superamento dell’ergastolo provocherebbe un incremento dei reati. Negherebbe la «commossa e solidale simpatia» che va rivolta alle vittime, non ai delinquenti. Prospetterebbe una «redenzione» di detenuti all’interno di galere trasformate in luogo di villeggiatura, quando invece «il solo mezzo efficace per “rieducare” o “recuperare”, nei limiti del possibile, i delinquenti» è la repressione «pronta ed esemplare». Quanto al trattare i rei con umanità, «comincino loro, i signori delinquenti, ad avere un senso di umanità e ad astenersi dal commettere delitti». Né manca il diffuso scetticismo sulla risocializzazione di certi criminali, nel nome di un diritto penale per tipi d’autore in auge allora come oggi.
Perucatti scrive a metà degli anni 50, denunciando una società che «ha sostituito la pubblicità del castigo con la pubblicità del delitto». Il livello del dibattito e delle cronache, decenni dopo, non si è elevato di molto.
5. Perucatti vede lontano, prima di altri. Al regolamento penitenziario fascista del 1931 oppone un’esecuzione penale orientata al recupero del reo. Lo fa riconoscendo carattere immediatamente precettivo all’art. 27, comma 3, della Costituzione, allora relegato tra le norme programmatiche rivolte al solo legislatore, inservibili in sede applicativa. Distinzione, questa, che la neonata Corte costituzionale supererà con la sua prima sentenza (n.1/1956), un anno dopo la pubblicazione del libro.
Di quel comma, Perucatti valorizza l’imposizione di «due limiti oltre i quali qualunque norma positiva diventa incostituzionale» e che «si confortano a vicenda e si integrano, con stretta logica». Anni dopo, sarà la Consulta a riconoscere che natura umanitaria e finalità rieducativa della pena si muovono dentro «un contesto chiaramente unitario, non dissociabile», perché «un trattamento penale ispirato a criteri di umanità è necessario presupposto per un’azione rieducativa del condannato» (sent. n. 12/1966). Educatore da una vita, Perucatti sa che «lo spirito umano è sempre suscettibile di miglioramento, in qualunque età» e per questo l’uomo del reato e della pena possono non essere più la stessa persona.
Irrompe qui «il fatto educativo» da cui l’esecuzione penale non può prescindere perché – dirà la Consulta – «la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile, ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento» (sent. n. 149/2018). In ragione di ciò, Perucatti prefigura un’esecuzione penale autonoma dalla fase della cognizione, affidata a tribunali ad hoc indipendenti, aventi giurisdizione territoriale su più carceri, chiamati a «fare da ponte e da regolatore del passaggio del condannato dal carcere alla vita libera», sovrintendendo a un trattamento penitenziario individualizzato, in stabilimenti diversi a seconda dei progressi fatti sulla via della rieducazione. È, in nuce, la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, che Perucatti farà in tempo a vedere prima di morire tre anni dopo. Infine, convinto che la pena sia solo privazione di libertà e che quando eccede l’«afflittività minacciata e voluta dalla Legge penale» vada compensata «con l’accorciamento della durata», Perucatti valorizza gli istituti di clemenza come strumenti di equità.
6. Inviso ai più, Perucatti subirà nel 1960 un trasferimento punitivo dopo l’evasione di due ergastolani da Santo Stefano. Troppo eccentrico e in anticipo sui tempi, il suo libro non avrà fortuna in dottrina. Oggi torna a nuova vita. Originariamente privo di qualsiasi prefatore, la sua ristampa ne vanta 5 (Marco Ruotolo, Silvia Costa, Lucia Castellano, Carmelo Cantone, Patrizio Gonnella): un meritato omaggio – penserebbe Perucatti – alla «mia passione per le cause giuste (come quella dell’argomento di questo libro)».
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