Il focus
Ergastolo ostativo, 69 detenuti campani sperano nello stop della Consulta

Tra pochi giorni la Consulta dovrà pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo, e, in particolare, sulla costituzionalità della norma che impedisce agli ergastolani per reati di mafia di beneficiare della liberazione condizionale senza una utile collaborazione con la giustizia. Una battaglia di diritti e di civiltà che sta sollevando reazioni opposte: da una parte ci sono una parte della magistratura, soprattutto quella composta da magistrati dell’Antimafia, i familiari delle vittime della criminalità organizzata, la politica più giustizialista, i timori e le perplessità di fronte al fenomeno delle mafie; dall’altra parte ci sono i principi della Costituzione che non si può continuare a ignorare, le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, le posizioni dei garantisti, degli storici del diritto, degli avvocati e di una parte di magistratura più sensibile alle prerogative dei detenuti.
«Il quesito da dirimere è: può uno Stato di diritto, che definisce la pena non come strumento di punizione e di vendetta ma di risocializzazione, tollerare ancora l’esistenza di un fine pena mai?», fa notare l’avvocato Sabina Coppola, consigliere del direttivo del Carcere Possibile, la onlus della Camera penale di Napoli che da anni si occupa della tutela dei diritti dei detenuti. «Questo è il tema – aggiunge l’avvocato Coppola – Non certo, come qualcuno cerca di far credere, se i mafiosi possano tornare liberi e indisturbati nelle proprie case, ma se sia legittimo presumere che essi restino “mafiosi” per tutta la loro vita, che per loro non esista alcuno spazio di riabilitazione e risocializzazione, nessun percorso che possa consentire una rivalutazione del loro vissuto, nessuna forma di premialità se non subordinata a una collaborazione con la giustizia».
La decisione della Consulta non determinerebbe automatismi e le sfumature da considerare restano tante e varie. «Non è corretto affermare – spiega la penalista -, come se si trattasse di un teorema scientifico, che un “mafioso” si è dissociato per il solo fatto che abbia collaborato con la giustizia (perché, magari, la ragione della collaborazione è solo il desiderio di riacquistare la libertà e di beneficiare del programma di protezione) e non è possibile sostenere che sia ancora legato ad ambienti criminali chi, magari, si sia davvero dissociato ma non collabori per il timore di ritorsioni sulla famiglia». «È arrivato – prosegue Coppola – il momento di affermare ciò che la Corte Costituzionale, seppur con timidi passi, sostiene da anni (dalla sentenza 313 del 2 luglio 1990 all’ultima, la 253 del 2019 sui permessi premio), ovvero che l’automatismo secondo il quale l’assenza di una condotta collaborativa equivarrebbe, sempre e comunque, al perdurare delle esigenze di ordine penale che precludono l’accesso ai benefici penitenziari è incostituzionale».
Quanto conta davvero la scelta di collaborare con la giustizia? «La collaborazione con la giustizia non è (e non può essere) – osserva l’avvocato Coppola – l’unico strumento attraverso il quale il reo può dimostrare l’intervenuta rottura dei legami criminali poiché ve ne sono altri forse ancora più autentici e, dunque, indicativi di un cambiamento reale e strutturale: si tratta dei percorsi di reinserimento sociale seguiti in carcere e dei programmi trattamentali ai quali mostrerà adesione se saprà che esiste per lui anche una sola possibilità di ottenere un beneficio». «Se lo Stato – conclude – accetterà ancora di privare un detenuto del diritto alla speranza, condannandolo a un fine pena mai, legittimerà, per alcune categorie di soggetti, quel trattamento che la Corte Europea ha chiaramente definito inumano e degradante e, di fatto, disapplicherà l’articolo 27 della Costituzione»
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