Prima catena: essere una donna in Turchia

Essere una donna in Turchia significa dover difendere ogni giorno il proprio corpo, la propria identità e i propri diritti. Solo nel 2024, ci sono stati 394 femminicidi. Le morti di 258 donne sono rimaste avvolte nel mistero, e questo numero include solo i casi registrati. Ciò significa che lo scorso anno, almeno una donna al giorno è stata uccisa in Turchia dal suo fidanzato, marito, padre o fratello. Alla radice di questi omicidi c’è sempre una rivendicazione di diritto e un rapporto di possesso, radicato prima di tutto nel ben noto patriarcato e poi nel concetto di “onore” ben saldo nella cultura turca. Questa “rivendicazione di diritto” è costantemente alla base delle difese degli assassini. Non so quante volte abbiamo sentito la difesa del “delitto passionale” nei casi di femminicidio. Mentre la situazione è così grave, cosa sta facendo il governo? Si ritira dalla Convenzione di Istanbul, ignorando i suoi obblighi costituzionali e di diritto internazionale, nonostante la Convenzione di Istanbul sia una vera e propria questione di vita o di morte per la Turchia. Il documento legale che potrebbe dare alle donne sopravvissute un respiro di vita viene abrogato dall’oggi al domani, sostenendo che danneggi i valori familiari della Turchia. Inoltre, il governo sta ora lavorando per criminalizzare l’espressione dell’identità LGBTIQ+. Da un lato, eliminando le protezioni legali per le donne e per le persone LGBTIQ+, il governo le lascia completamente indifese; dall’altro, restringe i loro spazi vitali e rende le strade, già pericolose, ancora più insicure attraverso vari strumenti e una retorica anti-donne e anti-LGBTIQ. Tuttavia, l’esperienza “insegnata” e costruita dell’essere donna in Turchia non significa solo vivere in una spirale di violenza. Certo, l’intensità varia a seconda delle condizioni socio-culturali e di classe, ma in una geografia in cui il patriarcato pervade tutte le istituzioni, tutto – dai diritti di rappresentanza all’essere riconosciute come individui degni di una relazione paritaria – è una lotta a sé.

Seconda catena: essere un’avvocata in Turchia

Il campo legale è un campo di battaglia costante per le donne, che si trovano ad affrontare giudici, pubblici ministeri, cancellieri, clienti e persino colleghi uomini che si sono laureati nella stessa università. Lo so dai miei clienti, che più volte si sono rivolti a me chiamandomi “Signore”. Anche se siamo abituate a questa situazione, non ci siamo mai rassegnate a essa, e la strenua lotta delle donne in Turchia ha iniziato a cambiare questo quadro. Tuttavia, resta il fatto che gli avvocati uomini godono di una fiducia più immediata, soprattutto nei casi penali più articolati, complessi o politicamente sensibili, dove si pensa che possano gestire meglio le situazioni difficili. Le avvocate devono anche affrontare una costante battaglia di “accettazione” in ogni interazione con i pubblici ministeri e i giudici. Sei costretta a dimostrare il tuo valore ancora e ancora, di fronte a una società e a un sistema giudiziario maschilista che vede prima il tuo genere e poi le tue competenze. Fino all’età della pensione, molti ti vedono come una presenza temporanea, perché si presume che prima o poi ti dedicherai alla cura dei figli. Questo pregiudizio infondato si riflette direttamente sulle politiche salariali degli studi legali nei primi anni di carriera, e generalmente le avvocate guadagnano meno rispetto ai loro colleghi uomini

Terza catena: essere un’avvocata per i diritti umani in Turchia

Essere un’avvocata per i diritti umani, soprattutto nei casi politicamente sensibili, significa lottare per sopravvivere e rimanere lucida nel mezzo degli ingranaggi marci del sistema giudiziario. Scegliere questa professione significa affrontare il vero volto del sistema. La battaglia che combatti in aula diventa improvvisamente qualcosa di più di una semplice lotta legale per conto del tuo cliente: si trasforma in una lotta per l’identità, una battaglia per i valori. Gli esempi parlano da soli. Le avvocate che si occupano di casi di femminicidio in Turchia lottano da anni affinché gli abiti indossati dalle donne assassinate o aspetti della loro vita personale non vengano accettati come giustificazioni per il crimine. Oppure, come spesso accade in questi casi, devono combattere contro le riduzioni di pena concesse a imputati, che non mostrano alcun rimorso, solo perché hanno indossato un abito elegante in tribunale.

Spezzare le catene, aprire le serrature

Semplicemente aprire queste “serrature” non ci porterà da nessuna parte. Dobbiamo spezzarle e sradicarle, le catene. Per questo si può dire che la lotta delle donne in Turchia è una lotta per rompere proprio queste catene. Le avvocate per i diritti umani in Turchia, proprio come una madre curda che scende in piazza l’8 marzo o una studentessa universitaria di 18 anni, combattono fianco a fianco in questa battaglia. L’unica cosa che ci distingue è la toga che portiamo sulle spalle. Una toga che non ci protegge dalle indagini, dai processi o dal carcere, ma che cerchiamo di trasformare in uno scudo per le altre donne. Come diciamo spesso tra noi, nella lotta per i diritti delle donne in Turchia: siamo l’una l’avvocata dell’altra. Siamo testimoni e voce l’una dell’altra. L’essenza storica dell’8 marzo è un giorno in cui ci ricordiamo a vicenda e resistiamo insieme.

Serife Ceren Uysal

Autore

*Progressive Lawyers Association of Turkey