Beh, sì, quello era giornalismo. Era una cosa complicata. Chiedeva estro, intuito, talento, cultura. Aveva un difetto, quel giornalismo: era mostruosamente selettivo. Se avevi le carte te le giocavi, sennò facevi il gregario. Era un bel lavoro anche fare il gregario. Ti dava molte soddisfazioni. Però dovevi stare nella macchina giusta. Seguire la corrente, la visione. C’era bisogno di leader, persino di geni. Di leader ce n’erano parecchi in giro, non era come oggi che non se ne vede più uno. Di geni pochi. Io ne ricordo tre, più uno. Scalfari, Montanelli e Pintor.

Più Reichlin, che era il mio direttore e che ho sempre considerato un gigante sottovalutato. Però, diciamo la verità, se cerchi in un gioco un po’ scherzoso di trovare il nome del numero uno dei numero uno, non c’è niente da fare, è lui: Scalfari. Lui e basta. Sapeva fare tutto. Il direttore, l’inviato, il commentatore, l’analista, il divulgatore, l’economista. Scalfari riformò il giornalismo italiano come non aveva mai fatto nessun altro, e come poi nessun altro fece. Lo riformò e lo rese una cosa seria, all’altezza del grande giornalismo francese, inglese e americano. Lo svecchiò e lo gettò verso il 2000. Oggi di quel giornalismo non c’è più nessuna traccia. Solo il ricordo di noi vecchi.
Oggi a voi piace Scanzi, non è così? Scanzi e Belpietro. Per carità, nel loro genere magari hanno un fascino. Scalfari però era un’altra cosa. Tra il giornalismo di oggi e quello di quegli anni c’è la differenza che passa tra il calcio balilla e il Brasile di Pelè. Oggi quello italiano è il peggior giornalismo d’Occidente.

A me Scalfari non è stato mai simpatico. Dico meglio: mi è diventato simpatico solo in vecchiaia. Perché? Mah, per tante ragioni, magari anche personali, ma soprattutto perché io, giovane giornalista comunista, mi sono sempre trovato su posizioni lontane da quelle che lui rappresentava. Del resto non mi stavano simpatici neppure Pintor e Montanelli. Pintor faceva sempre quello che ne sapeva più di tutti, il puro, il giusto, il sagace. E piantala, no? Sono stato allevato all’Unità e all’Unità ci insegnarono per il manifesto il sacro disprezzo. Di Montanelli non parliamone neppure. Era la destra della destra della destra. Certo, scriveva come un Dio. Forse nessuno, nel giornalismo italiano, ha mai scritto bene come Montanelli. E poi? Poi basta. Ebbe l’occasione di spianare il Corriere della Sera e di realizzare il grande giornale della borghesia conservatrice e liberale, quando il Corriere sgambettava a sinistra o inseguiva Licio Gelli. Si limitò a costruire un giornale, il Giornale, aggressivo e pallosetto che non ha mai contato nulla né in politica né nella formazione del senso comune. Uno può essere di destra o di sinistra, ma nessuno può mettere a confronto, per esempio, Il Giornale e Repubblica. Il quotidiano di Scalfari credo che nella storia del paese sia stato in assoluto il giornale che più di tutti ha saputo influenzare, dirigere e forgiare l’opinione pubblica.

Ecco, vedete, è questa la differenza essenziale tra Scalfari e tutti gli altri (ma anche tra il giornalismo di allora e quello di oggi). Allora il giornalismo guidava l’opinione pubblica, oggi è al servizio del senso comune. Non so perché ci sia stato il testacoda, la deriva. Il crollo. O forse un po’ lo so, ma ora è troppo complicato scriverne.
Scalfari sicuramente ha una biografia lunga. Dal Mondo, da Pannunzio, ad Arrigo Benedetti, al successo dell’Espresso, al complesso attraversamento del ‘68, tutta roba da costruire una biografia politico-intellettuale-giornalistica di primissimo piano. Ma il suo miracolo, la sua vera anima vivente è stata solo Repubblica, che si stacca di anni luce rispetto a tutte le altre operazioni giornalistiche. Nasce all’inizio del ’76 Repubblica. Mentre l’Italia entra nel fuoco della lotta armata, dell’inflazione, dell’avanzata operaia, della crisi della borghesia e della crescita del Pci. Non sai da dove cominciare, se vuoi fare un giornale. Scalfari, secondo me, partì senza un progetto preciso.

Si fidava. Di cosa si fidava? Di Scalfari. Del suo genio. E fece la scommessa giusta. È vero che Repubblica nei suoi venti anni migliori, dal ’76 al ‘96, oscillò paurosamente nella linea politica, passando da posizioni filosocialiste, al demitismo sfrenato, al berlinguerismo temperato, all’occhettismo folle, e poi all’antiberlusconismo un po’ cieco. È vero. Ma è stata la sua forza. Tu sapevi che a fare Repubblica non erano le grandi corporation, o Confindustria, o i partiti, o il governo: era Scalfari. Con l’aiuto di un drappello di giornalisti fantastici, da Bocca, a Pansa, a Biagi, a Valli, a Cavallari, a Rocca, Myriam Mafai. Ma poi era lui la mente. Ed era una mente che non considerava mai raggiunto l’obiettivo. L’obiettivo era cambiare, respingere il luogo comune, esporsi, indicare una via e poi correggerla se non funzionava più. E Scalfari sapeva fare questo usando l’arma della politica, certo, ma con moderazione e sempre ad alto livello. L’arma fondamentale era il minuzioso racconto della realtà. La cronaca, la cronaca, la cronaca. C’era un tipo strano vicino a lui, si chiamava Franco Magagnini, e con Magagnini c’era Gianni Rocca, due cronisti che come loro ce ne sono stati pochi. Scalfari si faceva guidare da loro. E li guidava, li guidava, li guidava.

Certo gli piacevano anche le polemiche. Quante mazzate. Soprattutto nei primi anni, quando Scalfari era anticomunista. E faceva infuriare me, giovane cronista politico della scuderia di Reichlin. Se le suonavano spesso, sulle loro prime pagine, Scalfari e Reichlin (poi so che diventarono amici per la pelle). Allora il livello era quello: Scalfari, Reichlin, Ottone, Ronchei, Arrigo Levi. Non so se mi spiego. Non credo che i giovani possano capire. Oggi puoi essere un ottimo intellettuale senza mai guardare neppure i giornali. Allora se non li leggevi tutti eri un cretino. Ha fatto degli errori, Scalfari? A tazze come lupini! Gli errori erano la sua forza. Secondo me di errori veri veri ne ha fatti però due soli: non fare barriera contro l’assalto dei magistrati milanesi alla Prima repubblica, e poi farsi travolgere in un antiberlusconismo troppo intriso dalle faccende e dai conflitti tra Berlusconi e il suo gruppo editoriale. Io sono convinto che la fortuna di Repubblica non è mai stata il gruppo editoriale. Caracciolo e De Benedetti c’entrano poco. Hanno solo beneficiato del successo. Repubblica è solo Scalfari (e poi nel ventennio successivo Ezio Mauro, ottimo direttore che ha tenuto alta la bandiera, ma che non poteva oggettivamente ripetere la rivoluzione e l’innovazione scalfariana. Poi, dopo Mauro, la notte fonda).

All’inizio degli anni Novanta Scalfari ebbe l’occasione di prendere la testa di una borghesia sbandata e priva di idee. Non seppe farlo. Lasciò il gioco in mano a Berlusconi. Oggi leggerete sui giornali le testimonianze di decine di persone che l’hanno conosciuto molto bene e che erano di famiglia. Qualcuno vi racconterà anche che Scalfari era una sua creatura… Personalmente l’ho incontrato solo una volta e una volta l’ho sentito al telefono. Andammo a pranzo nel 1997, invitati da Gianni Rocca. Ero condirettore dell’Unità e con Peppino Caldarola (che era il direttore) stavamo lanciando una riforma che andava tutta contromano: mentre esplodeva il giornalismo gridato, di immagini, a colori, avevamo preparato una edizione dell’Unità senza foto, titoli a caratteri piccoli, molti articoli, pochi scandali. Scalfari era curioso. Mi disse che secondo lui fallivo, ma che se non fallivo aveva già detto a Mauro che bisognava andarci dietro. Aveva ragione. Fallii. Anche perché il Pds era al governo e noi facemmo un giornale sobrio ma nettamente di opposizione. Ci cacciarono dopo pochi mesi.

Non ho mai più visto Scalfari. L’ho sentito tre o quattro anni fa, quando qualcuno dei 5 stelle, o forse del Fatto, non mi ricordo più, lo aveva ricoperto di insulti. Io lo difesi dalle colonne del mio giornale, che all’epoca era Il Dubbio, e scrissi di lui più o meno le cose che sto scrivendo qui. Il giorno dopo mi mandò un biglietto di ringraziamento molto gentile e con mia sorpresa citò due episodi che io credevo lui nemmeno conoscesse: quando, prima nel 1980 e poi nel 1988, Repubblica mi propose di passare da loro. La prima volta io stavo per accettare, ma si oppose Miriam Mafai, non so bene perché. La seconda rifiutai perché volevo restare all’Unità. Dopo aver letto il biglietto ruppi la mia timidezza e lo chiamai: parlammo al telefono, e lui mi fece tanti di quei complimenti che proprio non me li aspettavo. Poi non ci parlammo più. Voi dite: ecco perché scrivi così bene di lui, perché ti fece i complimenti!. No, ve lo giuro. Ne scrivo bene solo perché io penso che un giornalista come lui, in Italia, non è mai esistito.

Avatar photo

Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.