Euro 2024 e il calcio fast-foot che lancia e brucia talenti: l’effetto boomerang e il rischio oblio dopo la gloria

Spain's Lamine Yamal and Nico Williams, right, stand side by side during the final match between Spain and England at the Euro 2024 soccer tournament in Berlin, Germany, Sunday, July 14, 2024. (AP Photo/Manu Fernandez)

«Felice il paese che non ha bisogno di eroi», afferma Galileo nel dramma “Vita di Galileo” di Bertolt Brecht, dopo aver scoperto che la Terra non è al centro dell’Universo. Tra questi non fa eccezione il paese-calcio, infelice fuori dal campo perché impantanato in una guerra tutti contro tutti che parte dalle leghe e arriva ai governi passando per Federazioni nazionali e internazionali, club e calciatori, e infelice dentro al campo – in Italia e non solo – anche a livello continentale e mondiale: alla ricerca disperata di nuovi eroi, in questi anni segnati dal lungo tramonto dell’era Ronaldo-Messi. Non è un caso se per la prima volta nella storia due teenager hanno giocato la finale dell’Europeo Uefa dal primo minuto: Lamine Yamal nella Spagna, Kobbie Mainoo per l’Inghilterra.

Identità

La Spagna ha vinto il quarto Europeo della sua storia (1964, 2008, 2012, 2024) perché meglio di chiunque altro ha affermato la propria identità. Meglio soprattutto dell’Italia: unica squadra dal 2008 a oggi capace (2016, 2021) di eliminarla dal torneo, che invece si è incartata in improbabili discussioni sul gioco di possesso opposto alla sua eredità storica di un gioco efficiente. Più speculativo ma non per questo meno tecnico e vincente. Discutere di identità non vuol dire identificare un modello da copiare, ma individuare la propria attraverso il confronto – senza scimmiottare – soprattutto se ciclicamente i risultati ti danno ragione.
Dibattiamo sul bel gioco come se giocare bene risponda a una formula unica, eppure anche della Spagna si è detto che fosse diversa dal passato: meno possesso, meno passaggi orizzontali, più verticalità. E poi quei due ragazzi: Lamine Yamal (17 anni) e Nico Williams (22) compiuti rispettivamente uno e due giorni prima della finale. L’8 settembre 2023 in Georgia, Luis De La Fuente dovette metterli dentro in emergenza dopo gli infortuni di Marco Asensio e Dani Olmo: vinse 7-1 e da allora non li ha più tolti. Una squadra con la minor incidenza storica di Real Madrid e Barcellona in campo (solo 2 dal primo minuto in finale, al 90′ la più rappresentata era la Real Sociedad: 3 calciatori), puntellata su Rodri, playmaker del Manchester City, 28 anni, in odore di Pallone d’Oro anche perché dall’inizio del 2023 ha vinto 8 trofei e perso solo 4 partite in cui è sceso in campo. Club e nazionali sono cose diverse, a volte pure anticicliche. Ma è dentro i club che si coltiva il talento che poi le nazionali mettono a fattore ai campionati europei e mondiali.

Euro 2024 ha visto giocarsi il titolo tra le due nazioni che stanno avendo la maggior influenza culturale nel calcio dell’ultimo decennio: gli inglesi perché incassano di più e attraggono talento in campo e in panchina; gli spagnoli perché hanno un’idea di calcio che vende meglio sul piano narrativo e anche dei risultati. Noi siamo il terzo incomodo: con la nazionale nel 2021 a Wembley vincemmo contro entrambe ai rigori e vincemmo l’Eurocoppa, coi club a livello europeo il ranking Uefa a fine della stagione dice Inghilterra prima, Italia seconda, Spagna terza (non accadeva dal 1997 che gli spagnoli non fossero nelle prime due posizioni).
La Spagna nell’ultima stagione è stata il quarto paese più presente coi suoi giocatori in Premier League (26) dopo Brasile, Francia e Irlanda. È l’unico mercato al mondo sia di investimento che di esportazione del talento. Ha idee: 24 volte i tecnici spagnoli sono stati scelti per allenare in Premier League, il campionato più ricco del mondo, per un totale di 14.993 giorni in carica contro 21 volte degli italiani ma un rapporto 3 a 2 in termini di durata: 10.037. Noi abbiamo il maggior numero di allenatori vincenti grazie ai trionfi (uno a testa) di Carlo Ancelotti, Roberto Mancini, Antonio Conte e Claudio Ranieri. Pep Guardiola da solo è arrivato a 6, ma appunto i nostri vincono per varietà, adattamento, straordinarietà, sorpresa. Questo ci dice per contrapposizione qualcosa sulla nostra identità: sappiamo coltivare il talento quando c’è, lo sappiamo far rendere quando scarseggia, a patto di non snaturarci in inutili masturbazioni tattiche.

Hollywoodizzazione

Ci siamo sentiti dire per giorni che era un torneo brutto, abbiamo dovuto aspettare gli ottavi e un difensore (il turco Merih Demiral, ex Sassuolo, Juve e Atalanta) per vedere la prima doppietta, nei giorni in cui Kylian Mbappé deludeva la Francia e di Cristiano Ronaldo si ricordavano solo le lacrime. Eroi latitanti: Alvaro Morata è il terzo marcatore di sempre della Spagna di cui è capitano ma i connazionali non gli vogliono bene e lui ci soffre, ora deciderà se tornare da noi, firmare per il Milan e si è ventilato pure un addio possibile alla nazionale (improbabile); l’Inghilterra si interroga ancora sulla reale consistenza dei suoi campioni quando l’asticella delle competizioni per nazionali si alza (il bomber, Harry Kane, ha toccato un solo pallone in area avversaria in 2 finali 2021 e 2024). Non va meglio dall’altra parte dell’emisfero, dove Leo Messi vince il suo 45esimo trofeo grazie a Lautaro Martinez dell’Inter contro il colombiano James Rodriguez (un altro eroe al tramonto). Entrambi sostituiti prima dei supplementari (la Pulce per infortunio), Endrick (17) e Vinicius (24, in nazionale dal 2019), che presto si ritroveranno nel Real Madrid ma non sono ancora protagonisti in quello che rimane del Brasile.

Anni fa al SoccerEx di Manchester un esperto di marketing spiegava: “Agli asiatici non interessano i colori dei club ma i calciatori, con la stessa affezione che si sviluppa per gli attori nei film di Hollywood”. L’avanzata asiatica, cinese in particolare, nel calcio è fallita, ma l’hollywoodizzazione oggi dilaga anche in Europa. I calciatori hanno più sèguito social dei club stessi, vengono giudicati “per quello che hanno vinto”, come se non si trattasse di uno sport di squadra. Il torneo che si è chiuso domenica sera a Berlino ha pagato tributo a una stagione da 60-70 partite che spreme i giocatori, ma nella nuova stagione avremo 4 partite in più di Champions e un Mondiale FIFA per club talmente in eccesso che a oggi nemmeno le tv vogliono comprarlo. A proposito di giovanilismo ed eroi da scoprire: l’Inghilterra si è affidata a Jude Bellingham (21), la Germania a Jamal Musiala e Florian Wirtz (entrambi 21). I turchi avevano Arda Güler (18) e lo juventino Kenan Yildiz (19), l’Olanda l’eterna promessa Xavi Simons (21): uno che faceva un milione di follower su Instagram già a 14 anni. Noi abbiamo risposto con Riccardo Calafiori (22) e la Georgia con Khvicha Kvaratskhelia che ne ha 23 ma suona come un 30enne vicino a questi nomi. Gianluigi Donnarumma (1999), Phil Foden (2000) e Kylian Mbappé (1998) sono già considerati senatori.
L’Italia non è un paese per giovani, ma si è presentata con la settima rosa più giovane. L’unico a non accorgersene è stato il CT che non ha trovato molto di meglio dopo l’eliminazione che sventolare la bandiera del ringiovanimento. Come se i prossimi verdetti sul suo conto debbano arrivare tra 10 anni e non in autunno (Nations League, l’ultima volta andammo in semifinale) e tra un anno (qualificazioni al mondiale 2026). Nessuno ebbe da eccepire quando Antonio Conte nel 2016 si presentò schierando le 3 formazioni iniziali più vecchie del torneo e con una squadra non tecnicamente eccelsa ma che uscì solo ai Quarti perdendo ai rigori. Peraltro l’Experience Score – una metrica elaborata da Andrew Beasley, un analista di dati appassionato di calcio che solitamente si occupa di banche e finanza – pur non mostrando una forte correlazione complessiva, evidenzia come squadre con punteggi più alti hanno cinque degli ultimi sei tornei.

Fast-foot

Ma cosa resta poi di tutto questo giovanilismo? Rimane un calcio fast food, o fast-foot se preferite, bulimico, che ingurgita carriere e le brucia: prima di Yamal la Spagna fece esordire Ansu Fati a 18 anni nel 2020, 10 presenze e poi l’oblio. Saul Niguez è durato 3 anni, fino a 25, l’Inghilterra ha perso le tracce di Dele Alli convocato dai 19 ai 23, lasciato a casa Jadon Sancho (18-21, è stato finalista di Champions con il Borussia Dortmund, ora lo vuole la Juve), scartato Marcus Rashford (27 anni, esordio a 19, ultima presenza a marzo) e dimenticato Raheem Sterling (28 anni, non viene chiamato dal 2022) ma pure Mason Mount (classe 99, in nazionale dal 19 al 22).
Non aiutano le regole sulle doppie nazionalità, che hanno trasformato le rappresentative in club pronti a piombare sull’ultimo arrivato, mercato vero: Karim Adeyemi (nato in Germania, madre tunisina e padre nigeriano), dopo l’esordio in maglia tedesca a 19 anni ha fatto 50 minuti ed è caduto nell’oblio, ora è calcisticamente tedesco e non può cambiare. Al contrario Niclas Füllkrug, 31 anni, a 29 è stato il più vecchio esordiente in maglia tedesca, e in queste settimane il più efficiente giocatore del torneo: 5 subentri e 2 gol, uno ogni 80 minuti. Nota a margine: tra le grandi scuole calcistiche UE siamo gli unici a non avere lo ius soli che invece esiste in Belgio, Germania, Portogallo, Francia, Paesi Bassi e Spagna pur con profili diversi. Ma questo è un tema serio che non può essere derubricato a opportunismo sportivo (come pure è già successo in Italia).
Tra pochissimo ci ritufferemo nel calcio dei club e non dobbiamo dimenticarci che nell’ultimo anno siamo quelli che hanno brillato più di tutti in Europa. Siamo tornati secondi nel ranking a conferma proprio di quest’ultima cosa: non siamo improvvisamente più ricchi, siamo solo i migliori a fare con quel che c’è, di questo dobbiamo convincerci anche se la nostra identità di gioco non buca il video come quella dei giocolieri spagnoli.