Economia
Europa geoeconomica, un ritorno alle origini. Il piano Marshall di Draghi e la voce comune mancante in politica estera
Agli albori della Commissione da lui presieduta 10 anni fa, Jean-Claude Juncker proclamò la necessità di un’Unione Europea “politica”: “più grande ed ambiziosa sulle cose grandi, più piccola e più modesta sulle cose piccole”. Cinque anni fa all’inizio del suo mandato, Ursula von der Leyen dichiarò invece l’impellenza di una Commissione “geopolitica”, ovvero che, nelle parole del suo Alto rappresentante Borrell, imparasse a “parlare la lingua del potere”.
La geoeconomia in Europa
Per il ciclo politico ora alle porte si fa un gran parlare di “geoeconomia.” Il rapporto sulla competitività di Mario Draghi—autorevole, ambizioso e quanto mai dettagliato—ne detta i modi e i tempi di marcia su innovazione, decarbonizzazione e sicurezza senza le quali l’Europa si avvierà ad una lenta ma inesorabile “agonia”. Indirettamente, è anche una conferma che l’afflato geopolitico non ha retto all’urto provocato dall’invasione russa all’Ucraina e della deflagrazione mediorientale. Inaugurata in pompa magna nel dicembre 2019, in era pre-COVID, con un viaggio di tutto il collegio di Commissari in Africa, la Commissione geopolitica si è arenata nel più classico dei modi europei: un apparato decisionale lento e ostaggio di veti incrociati. La geopolitica, comunque si voglia declinare questo concetto spesso aberrante, viene applicata nella prassi da attori quali Russia, Cina ma anche Stati Uniti con una brutalità e velocità tali che l’Europa non può oggettivamente competere.
La geoeconomia è per certi versi un ritorno alle origini. Dalla Comunità del carbone e dell’acciaio in poi, l’Europa è sempre stata, nelle parole di un ex ministro belga, “un gigante economico, un nano politico e un verme militare”. È un concetto che si attaglia meglio alle liturgie europee che in settori quali il commercio estero ha un processo decisionale accentrato a Bruxelles. Mettere a fattore un mercato di 450 milioni di cittadini per perseguire obiettivi che senza iperboli costituiscono le fondamenta del nostro modello sociale e della nostra sopravvivenza è la battaglia giusta che merita di essere combattuta. E così forse non siamo ancora capaci di approvvigionare Kyiv di munizioni, ma siamo stati in grado di mostrare i muscoli geoeconomici nell’approvare 14 pacchetti di sanzioni contro la Russia. Non siamo in grado di esprimere una voce veramente comune in politica estera; ma potremmo ambire a quella che Draghi chiama una “vera politica estera economica”, che possa “coordinare accordi commerciali preferenziali e investimenti diretti con paesi ricchi di risorse; costituire scorte in aree critiche selezionate; e creare partnership industriali per garantire la catena di fornitura per le tecnologie chiave”.
Il Piano Marshall di Draghi
Tutto risolto quindi? Si e no. La diagnosi di Draghi com’è noto ha un conto molto salato, quantificato in 750-800 miliardi euro di investimenti. Un nuovo Piano Marshall (slogan che viene rispolverato ogni volta che si paventano cifre che non si hanno) che presupporrebbe un debito comune al quale i falchi tedeschi si sono puntualmente opposti. Ci volle una pandemia senza precedenti per spronare Angela Merkel ad acconsentire a somme simili. Ma senza emergenze epocali che nessuno vuole auspicare, è difficile immaginare l’emergere di un consenso unanime alle richieste di Draghi. L’Europa ha la pessima abitudine di mascherare complesse manovre tecnocratiche con operazioni di pubbliche relazioni piuttosto goffe. Se l’Europa geoeconomica sostituirà quella geopolitica che a sua volta sostituì quella politica, possiamo chiamarlo un passo avanti solo se alle parole seguiranno i fatti.
Il futuro che ci paventa Draghi non è necessariamente quello di un mondo a somma zero, dove si vince solo se qualcun altro perde. Il calo della produttività è qualcosa che dobbiamo affrontare a prescindere da cosa faranno la Cina o gli Stati Uniti. Eppure l’Europa del 2024 è oggettivamente più anziana, meno produttiva e più marginale dei nostri principali concorrenti e di quanto sperassimo nel 2014 o nel 2019. Prendiamoci dunque il tempo che serve per riflettere sui moniti di Draghi. Assorbiamone la diagnosi prima di lanciarci in improbabili operazioni di marketing politico. E prima di coniare un nuovo slogan, cerchiamo di recuperare la modestia e l’integrità di riconoscere i nostri limiti.
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