"Ora sono vigile in un corpo diventato gabbia senza spazio né speranza"
Eutanasia, Felicetta e Virginia si autodenunciano: hanno aiutato Paola a morire, rischiano 12 anni di carcere
“Tale decisione è maturata nel tempo. Dal 2012 un inizio di malessere chiaramente diagnosticato nel 2015. Un graduale e lento decorso verso la totale immobilità. Ora sono vigile in un corpo diventato gabbia senza spazio né speranza. Anzi stringe, ora dopo ora, inesorabile la morsa. La diagnosi è un parkinsonismo irreversibile e feroce — taupatia — arrivata oggi a uno stadio che non mi consente più di vivere. Non sono autonoma in nulla, tranne che nel pensiero”. Scriveva così in una lettera (pubblicata dal Corriere della Sera) Paola, signora di Bologna di 89 anni affetta da una grave forma di Parkinson che le impediva di muoversi e di parlare. Per questo ha chiesto aiuto per arrivare in Svizzera e porre fine alle sue sofferenze iniettandosi da sola la dose di farmaco per l’eutanasia. Non lo ha potuto fare in Italia perché non ne aveva il diritto.
Ad accogliere la sua richiesta di aiuto, e ad accompagnarla materialmente in Svizzera, sono state Virginia Fiume, 39 anni, attivista e co-presidente del movimento paneuropeo EUMANS, che si occupa di diritti umani e democrazia, e Felicetta Maltese, 71 anni, l’attivista dell’associazione Luca Coscioni che si era già autodenunciata per un caso simile lo scorso dicembre. Giovedì 9 febbraio si sono autodenunciate, insieme a loro si è autodenunciato anche Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, in quanto legale rappresentante dell’associazione Soccorso Civile, che ha organizzato e finanziato il viaggio verso la Svizzera. Ad accompagnarli c’era Filomena Gallo, avvocata e segretaria nazionale dell’associazione Luca Coscioni. Fiume e Maltese ora rischiano dai 5 ai 12 anni di carcere per il reato di istigazione o aiuto al suicidio, previsto dall’articolo 580 del codice penale, che punisce “chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione”.
Si tratta del quarto atto di disobbedienza civile compiuto in Italia dallo scorso agosto, gli altri tre erano stati fatti da Cappato, Maltese e dalla giornalista Chiara Lalli. L’Associazione Luca Coscioni, su Facebook ha spiegato perché Paola non poteva accedere al suicidio assistito in Italia: “non era tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, pertanto non avrebbe potuto accedere al suicidio assistito in Italia come previsto dalla sentenza 242/2019 sul caso Cappato/Antoniani della Consulta”. E la stessa associazione chiarisce: “Le persone che si sono rese disponibili a unirsi alla disobbedienza civile, aderendo all’associazione Soccorso Civile e aiutando chi ha bisogno di porre fine alle proprie sofferenze insopportabili e senza speranza di cura, al momento sono 17”.
“Nonostante il Parkinson riusciva a comunicare benissimo, era completamente lucida, non aveva la minima incertezza. Non dimenticherò mai la dignità con cui ha condotto fino alla fine questa sofferenza”, ha detto al Corriere Felicetta Maltese. “È stato importante vedere la determinazione della signora Paola nell’affermare la sua scelta pur in condizioni estremamente limitanti, ma con una mente e una voglia di vivere incredibile, fino a tenere la penna per firmare gli ultimi documenti e alzare i suoi pollici per confermare la sua scelta al medico in Svizzera”, sottolinea Virginia Fiume che poi prosegue: “Se il mio corpo e la mia possibilità di muovermi può essere d’aiuto a chi non può è importante farlo”.
“La Corte Costituzionale nell’intervenire ha potuto solo dare delle indicazioni per poter procedere in base a quello che era un caso, quello di Dj Fabo, pur emettendo una sentenza di portata generale – sottolinea Gallo – ma ci sono altri malati, che hanno la piena consapevolezza delle loro scelte, con sofferenze che reputano intollerabili, ma non hanno ancora il trattamento di sostegno vitale. O che hanno tutti i requisiti, ma non possono somministrarsi il farmaco perché completamente immobili”. La strada della disobbedienza civile, dice la segretaria dell’associazione Luca Coscioni, “può portare al carcere, ma può portare nuovamente in Corte Costituzionale, affinché la Corte intervenga nuovamente per eliminare una discriminazione che non trova fondamento”. Anche se Gallo ci tiene a sottolineare una cosa: non esistono scorciatoie. “La responsabilità principale resta al Parlamento – conclude l’avvocata – che non emana una legge per le persone che sono rimaste escluse dalla sentenza della Corte Costituzionale”.
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