Sibilla Barbieri aveva 58 anni. Una donna la cui oggettiva, luminosa, bellezza non era stata intaccata dalla malattia che la devastava. Era molto malata, Sibilla. Metastasi in ogni angolo del corpo. Ogni giorno un nuovo problema, il rischio che da un momento all’altro la fragilissima impalcatura del suo corpo crollasse, consumata dal cancro dall’interno. Preso atto che non c’erano speranze, Sibilla aveva deciso di decidere, di guidare lei, di fare in modo che la sua vita – la fine della sua vita – dipendesse da lei, non dalla malattia.

Da quattro anni la Corte Costituzionale ha stabilito che in Italia si può accedere al suicidio assistito in presenza di quattro condizioni: la capacità di autodeterminarsi, una malattia inguaribile, avere sofferenze intollerabili e dipendere da un sostegno vitale. Ultimo requisito, questo, ovviamente opinabile, interpretabile. E interpretato dai medici mandati dalla ASL a decidere sul caso di Sibilla in modo restrittivo: né l’ossigeno cui era attaccata, né la pesantissima terapia antidolorifica sono stati abbastanza per convincere la commissione medica che, a nome dello Stato, ha dovuto decidere per lei.

Pensiamoci: una commissione che è entrata in casa sua per decidere al suo posto – pretendendo di capirlo più e meglio di lei – se Sibilla soffrisse abbastanza da poter decidere di morire. Un’invasione di rara violenza in una sfera privatissima, la più intima, della sua esistenza, della sua vita. Che Stato è uno Stato che decide di sostituirsi alle libere determinazioni dei propri cittadini? Questo approccio paternalistico per cui gli adulti restano in fondo sempre dei bambini, la cui volontà può essere sovrascritta dall’autorità dello Stato (che poi è la volontà delle maggioranze che di volta in volta possono approvare le leggi in Parlamento) è secondo me assolutamente inaccettabile.

Un modo di porsi intollerabile che purtroppo caratterizza e differenzia l’Italia da tutte le altre democrazie mature nel mondo. Nel nostro Paese lo Stato può dire a me che non posso sposare il mio compagno, non differentemente da quando diceva che persone di “razze” diverse non potevano essere una famiglia. Nel nostro Paese lo Stato, con tutti i limiti posti dalle leggi sulla fecondazione medicalmente assistita e sull’adozione, decide sull’idea e sulla possibilità di fare un figlio. In Italia, adesso, lo Stato ha deciso anche di stabilire cosa noi si possa o non si possa mangiare: l’ineffabile disegno di legge sulla carne sintetica sancisce l’ingresso solenne dell’autorità dello Stato anche nel frigorifero delle nostre cucine. E soprattutto lo Stato, come nel caso di Sibilla Barbieri, decide d’autorità se possiamo stabilire di morire.

E, attenzione, lo fa nei confronti dei più deboli, di coloro che sono impossibilitati dalla malattia a provvedere, volendolo, da sé. Perché va detto: il tentato suicidio non è punito dalla legge. Se vuoi buttarti da un balcone, come fece Mario Monicelli in una sera di pioggia di fine novembre del 2010: prego, si accomodi. Ma se un uomo dell’età e con la malattia di Monicelli avesse semplicemente di chiesto di porre fine alla sua vita in modo dignitoso, circondato dall’amore dei suoi cari, senza terminare la propria esistenza sul selciato gelido e bagnato del cortile dell’ospedale dove era ricoverato, la risposta sarebbe stata un fermissimo “no”.
A nulla sono valsi nemmeno i moniti della Corte Costituzionale. Sono passati quattro anni da quando la Consulta ha aperto alla possibilità che un malato terminale possa accedere al suicidio assistito. Ma ha anche detto, l’Alta Corte, che il compito di legiferare in materia non spetta a lei, ma al Parlamento. Eppure nel Paese che convoca in quattro e quattr’otto un Consiglio dei Ministri per conferire la cittadinanza italiana a una bambina britannica che non ha alcuna possibilità di sopravvivenza – una cittadinanza tutta ideologica: non c’è alcun bisogno di essere cittadini italiani per essere curati in Italia, o di studiare in Italia, come la destra spiega sempre alle centinaia di migliaia di ragazzi nati e cresciuti nel nostro Paese che la cittadinanza continuano a non ottenerla – quattro anni non sono bastati per fare una legge.

Dirò di più: nella scorsa legislatura la Camera dei Deputati è risuscita ad approvare una legge – poi caduta nel nulla a causa della fine della legislatura – che realizzava l’incredibile paradosso di essere più restrittiva, di conferire ai cittadini meno libertà, di quanto espressamente prescritto dalla Corte Costituzionale. E oggi, con questo governo, l’eventualità che si arrivi a una legge che restituisca alle persone il semplice e inalienabile diritto di autodeterminarsi non è realisticamente prevedibile.
È per questo che ho deciso di aderire all’Associazione “Soccorso Civile” di Marco Cappato e di partecipare a un atto di disobbedienza civile. Con Luigi Manconi e Riccardo Magi ho sostenuto sul piano organizzativo ed economico il viaggio verso la Svizzera di Sibilla Barbieri, di suo figlio Vittorio e di Marco Perduca, che l’hanno accompagnata, e dunque la magistratura dovrà stabilire se sono adesso passibile di una pesantissima condanna detentiva. Un viaggio non verso un eccentrico paese lontano, si badi, ma verso la vicina Svizzera, il cui confine sta a meno di sessanta chilometri da Milano, da casa mia.
È stata una decisione pesante: per carattere non sono necessariamente uno che si conforma, ma ho un rispetto sacrale della legge, della legalità. Autodenunciarmi ieri alla polizia giudiziaria per aver violato l’art. 580 del Codice Penale (quello che tra l’altro dice che chiunque “agevola in qualsiasi modo” l’esecuzione del suicidio altrui “è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni”) è stato un passo pesante, che dovevo alla mia coscienza di uomo e di cittadino, prima ancora che di parlamentare. Un passo fatto con piena convinzione ma, da italiano, con il cuore pesante. Perché in un paese giuridicamente civile tutto questo non dovrebbe essere necessario.