Il quesito promosso dall'Associazione Luca Coscioni
Eutanasia legale, occasione per riprendere la parola su tema divisivo
Centinaia di tavoli in tutta Italia, tra il 9 e il 12 luglio, hanno animato la prima mobilitazione straordinaria di raccolta firme per il referendum pro eutanasia legale promosso, con altre sigle, dall’Associazione Luca Coscioni. Per quel che vale, anch’io ho sottoscritto il quesito e, da costituzionalista, vorrei spiegarne le ragioni.
La prima attiene alla sua natura, che lo sottrae a una diffusa vulgata (non estranea a taluni promotori dei sei quesiti abrogativi sulla giustizia) secondo cui il referendum sarebbe una spinta a necessarie riforme legislative. L’idea, cioè, del referendum come «stimolo» a Governo e Parlamento. È una curiosa affermazione, che scambia un quesito abrogativo popolare per un confetto Falqui. Ma un referendum non è un purgante. Giuridicamente, il referendum è una fonte del diritto: abrogando in tutto o in parte un testo di legge, innova l’ordinamento indipendentemente dalla volontà di Governo e Parlamento. È quanto esattamente si prefigge questo quesito referendario: aggregare un consenso elettorale, minoritario nelle aule parlamentari ma ritenuto maggioritario nel Paese, traducendolo in volontà normativa attraverso un voto popolare abrogativo capace di introdurre – a determinate condizioni – l’eutanasia attiva.
L’iniziativa dell’Associazione Coscioni, dunque, usa il referendum come strumento di decisione diretta e alternativa alla (non) decisione di un Parlamento rimasto finora sordo, cieco e muto in tema di suicidio medicalmente assistito. In questa prospettiva, a contare è il quesito esplicito confezionato e sottoposto alla firma popolare. Ciò marca un’ulteriore differenza con la parallela campagna referendaria sui temi della giustizia: molte autorevoli adesioni, infatti, prescindono dichiaratamente dalla conoscenza dei suoi sei quesiti al di là della loro semplificata titolazione: «e ti dico di più, del loro contenuto non mi importa nulla» (Paolo Mieli dixit). Ciò che conta – si teorizza – è iscrivere il problema generale di una giustizia (in)giusta nell’agenda politica, fidandosi dell’azione riformatrice di Governo e Parlamento. Mal che vada, all’inerzia legislativa subentrerà il voto abrogativo popolare. In questa prospettiva, le esplicite domande rivolte agli elettori passano in secondo piano perché a contare è l’unico quesito implicito che tutte le riassume. Ma così si trasforma il referendum in un plebiscito (in questo caso, pro o contra la magistratura) su un tema politico di carattere generale, sottostimando così la puntuale portata normativa dell’abrogazione popolare.
Prima di firmare, invece, è sempre meglio leggere cosa si sottoscrive. È necessario conoscere per deliberare, anche quando lo si fa per via referendaria. Qual è, allora, l’oggetto del referendum promosso dall’Associazione Coscioni?
Nel nostro ordinamento è punita penalmente sia l’eutanasia attiva, mediante il reato di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), sia l’eutanasia passiva, con il reato di aiuto al suicidio (art. 580 c.p.). Quanto all’art. 580 c.p., grazie alla disobbedienza civile di Marco Cappato nel tragico caso di DJ Fabo, è intervenuta la Corte costituzionale a ridurne l’ambito di applicazione. La sua sent. n. 242/2019, infatti, ha depenalizzato il reato di aiuto al suicidio se riguarda una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
La realtà, però, presenta casi altrettanto tragici non incapsulabili nelle maglie strette del giudicato costituzionale: malati terminali che sopravvivono senza trattamenti di sostegno vitale, malati sofferenti che non sono in grado di assumere autonomamente il farmaco letale. Da qui la necessità di arrivare – con le dovute cautele – all’introduzione dell’eutanasia attiva. Il referendum, infatti, agisce sull’art. 579 c.p. abrogandolo solo in parte. Il reato sopravviverà a sanzionare l’omicidio del consenziente se il fatto è commesso contro un soggetto vulnerabile: perché minore, o perché le sue condizioni personali escludono l’autenticità del consenso prestato, o perché quel consenso è stato estorto o carpito con inganno. Dunque, a contrario, una persona sana di mente, di maggiore età, capace di esprimere un libero consenso, potrà validamente autorizzare la propria morte, senza conseguenze penali per chi l’abbia determinata.
Quanto alle modalità eutanasiche, l’espressione «con il consenso di lui» (che sopravvive nell’art. 579 c.p.) andrà reinterpretata all’interno dell’attuale quadro ordinamentale, coordinandola con quanto proceduralmente prescritto sia dalla legge n. 219 del 2017 in tema di consenso informato e testamento biologico, sia dalla sent. n. 242/2019 che già impone a una struttura sanitaria nazionale pubblica, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente, la previa verifica delle quattro condizioni introdotte dalla Consulta.
L’esito referendario descritto segnerebbe un mutamento di paradigma: dal principio di indisponibilità del diritto alla vita (cui si ispira il codice Rocco) all’opposto principio di autodeterminazione in ordine alla scelta sul se, come e quando porre termine dignitosamente alla propria vita. Già oggi è così per la più larga maggioranza di noi, liberi di interrompere autonomamente la propria esistenza: il suicidio, infatti, non è punito penalmente, neppure nelle forme del delitto tentato. Che poi la condotta suicidaria non sia un diritto soggettivo, riconosciuto e garantito dall’ordinamento, lascia comunque impregiudicata la sua natura di libertà di fatto. Grazie al referendum sarà così anche per chi è più sfortunato, privato di un’eguale libertà per le crudeli e arbitrarie avversità della vita, casualmente impossibilitato a darsi la morte da solo pur desiderandolo più della propria sopravvivenza. Perché in talune tragiche situazioni, quando il corpo si fa prigione dolorosa e insopportabile, «anche se non gode di ottima fama, a volte il suicidio è la soluzione giusta» (Emmanuel Carrère, Yoga, Adelphi, p. 174).
Giuridicamente, c’è dell’altro. Incardinare un simile quesito attraverso le necessarie 500.000 firme introdurrebbe già di per sé un vincolo al legislatore futuro. Avviso chi legge che il punto è squisitamente tecnico, ma merita l’attenzione che richiede. La legge n. 352 del 1970 sui referendum prevede che le operazioni referendarie non hanno più corso, se prima del voto popolare la norma oggetto del quesito è abrogata dal Parlamento. È una previsione ragionevole, perché in simili casi l’esito abrogativo referendario è già stato raggiunto. E come non si può uccidere un uomo morto, così non si può abrogare due volte la stessa normativa. Un caso a caso: accadde nel 1978, quando la legge n. 180 (la c.d. legge Basaglia) venne approvata con un voto quasi unanime al Senato, con l’eccezione del Partito Radicale che vide nel provvedimento l’escamotage per evitare il referendum abrogativo della legge manicomiale del 1904, già convocato. La giurisprudenza costituzionale pertinente, tuttavia, esige che il sopravvenuto intervento legislativo sia autenticamente innovativo, cioè tale da modificare i principi ispiratori e i contenuti normativi di dettaglio della disciplina oggetto di referendum. Diversamente, se si trattasse di mera cosmesi legislativa, il referendum si effettuerà comunque, ma sulla legge sopravvenuta: toccherà all’Ufficio centrale per il referendum presso la Cassazione riformularne il quesito.
Ecco il punto nodale. Se sottoscritta da almeno 500.000 elettori, l’ipoteca referendaria sul reato di omicidio del consenziente obbligherà il legislatore che volesse disinnescare l’iniziativa dell’Associazione Coscioni a disciplinare la materia introducendo una forma legale di eutanasia attiva. Non è questo il caso del testo base approvato il 6 luglio scorso dalla Commissione Giustizia della Camera (n. 1418, Zan e altri) in tema di «rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia». Nella sua attuale versione, si limita a recepire le condizioni, i limiti e le procedure per l’accesso al suicidio assistito già individuate dalla Corte costituzionale nella citata sent. n. 242/2019. Riguarda dunque l’art. 580 c.p., e non l’art. 579 c.p. (oggetto del quesito referendario). Introduce una disciplina dell’eutanasia passiva, ma non modifica il divieto penale dell’eutanasia attiva (obiettivo esplicito del referendum). Se approvata, sarà una legge certamente opportuna ma inidonea a precludere il possibile voto sul quesito in esame.
Grazie all’iniziativa dell’Associazione Coscioni, abbiamo così la possibilità di riprendere la parola su uno di quei temi considerati eticamente sensibili, dunque divisivi, quindi cancellati dall’agenda politico-parlamentare. Come se fossero irrilevanti, quando invece – alla lettera – sono questioni di vita o di morte. Possiamo farlo attraverso un referendum. Si deve ad un comico, “elevato” a grillo parlante di ciò che resta del M5S, la definizione più irriverente dell’istituto referendario. Chiedo venia per l’espressione da trivio che tocca citare: nel referendum, se condividi la legge oggetto del quesito devi votare «no», mentre se non la condividi devi votare «sì»; dunque è come se, durante la celebrazione di un matrimonio, il prete chiedesse allo sposo: «La vuoi mandare a cagare?», «No», «Allora vi dichiaro marito e moglie».
Ai comici è permesso tutto. Ai leader politici meno. Al corpo elettorale, invece, spetta il compito di capitalizzare la scheda referendaria a cominciare da questa straordinaria occasione. Basta poco per assicurarci la possibilità di essere «liberi fino alla fine» (come recita lo slogan della campagna referendaria): un documento d’identità, una penna e una firma in calce ai moduli che il Comitato promotore porterà in piazza fino al 30 settembre. Affrettatevi.
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