Ho sempre pensato che uno Stato di diritto maturo, che cerca giustizia e non vendetta, si può misurare da come tratta i colpevoli, non gli innocenti o i pentiti. Il carcere è già la pena, anche se l’obiettivo della reclusione dovrebbe essere più nobile della pena stessa. Non c’è bisogno di calcare la mano. Non in una democrazia europea, soprattutto quando innocenti e colpevoli sono ancora da stabilire. Eppure quello che sta accadendo intorno al Qatargate e alla carcerazione di Eva Kaili appare gravissimo, almeno ascoltando le dichiarazioni degli avvocati.

Non vi è dubbio che lo scandalo in corso deve interrogarci sulla capacità delle istituzioni comunitarie di tutelarsi dalla illegalità e, contestualmente, divincolarsi dalla presa di lobby pubbliche e private che spendono 1,5 miliardi l’anno per promuovere i propri prodotti, a partire da farmaci e armi. Sono 12mila i lobbisti accreditati presso il parlamento europeo. Nell’ultimo periodo le grandi Companies hanno investito sempre più risorse per attività di lobbying. Google 6 milioni di euro, Microsoft 5 milioni, Huawei 2,2 milioni, Leonardo 400mila, per non parlare di quanto speso durante la pandemia dalle Big pharma (Pfizer, Astrazeneca, Johnson & Johnson), circa 36 milioni di euro. Così come è palpabile, tra i corridoi di Bruxelles, la presenza di Stati autoritari impegnati in attività che definire diplomatiche non aiuta a comprendere il contesto.

Questo per dire che forse più che delle mele marce dovremmo occuparci della cesta. Tuttavia le dichiarazioni del magistrato che sta indagando sembrano arrivare direttamente dal cuore del populismo giustizialista. Accusare tutti i politici di connivenza con la criminalità finanziaria come fa in un’intervista in cui afferma che “sarebbe necessario fare qualcosa in merito”. Così come è preoccupante paragonare la corruzione e il riciclaggio alla lotta contro il clima. Né è accettabile l’immagine della Procura che negozia i patteggiamenti “puntando la pistola alle tempie delle persone indagate”. In questo clima il legale della Kaili Mihailis Dimitrakopoulos ha spiegato che “da mercoledì 11 gennaio a venerdì 13 gennaio Eva Kaili è stata in isolamento su ordine del giudice istruttore Michel Claise. Per sedici ore è stata in una cella di polizia, non in prigione, e al freddo. Le è stata negata una seconda coperta e le hanno tolto il cappotto, la luce della stanza era sempre accesa impedendole di dormire, era nel suo periodo di ciclo mestruale con abbondanti perdite di sangue e non le era consentito lavarsi. Questa è tortura”. “Eva Kaili – ha proseguito leggendo un documento redatto d’accordo con la stessa ex vicepresidente del Parlamento europeo – è accusata ma c’è sempre la presunzione di innocenza. Siamo in Europa, questi atti violano la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Questo è il Medioevo”.

Inoltre, in 45 giorni è riuscita a vedere la figlia di 23 mesi solo due volte. Una bimba senza più la presenza della mamma né del papà. Un atto violento che pagherà la bambina e che ha tutto il sapore di una pena aggiuntiva, da riscuotere prima ancora della celebrazione del processo. Sia chiaro, in Parlamento stiamo operando per rendere più stringerti le norme e i comportamenti. Evitare le porte girevoli che trasformano i politici in portatori d’interesse, fare trasparenza, accountability, responsabilità, più attenzione alle ingerenze di Paesi ostili, regole chiare per individuare e prevenire il lobbismo disonesto ed evitare qualsiasi forma di corruzione e manipolazione del processo decisionale. Così come osserviamo con rispetto la magistratura che indaga e che può aiutarci a fare chiarezza e riscattare l’onore dell’assemblea parlamentare europea. La Commissione JURI prenderà in carico nei prossimi giorni il dossier sulla revoca dell’immunità per i parlamentari coinvolti e siamo tutti d’accordo che una risposta incisiva sia l’unico modo per provare a recuperare la fiducia delle cittadine e dei cittadini europei.

Incisiva ma fondata sul diritto e le prove, non su stati d’animo da cavalcare con destrezza al fine di propaganda politica che rischia di indicare il capro espiatorio e non cogliere la dimensione politica generale del problema. La magistratura si occupa dei reati e delle responsabilità individuali. Noi dovremmo riflettere e agire sul contesto che favorisce o meno le degenerazioni senza inseguire la pubblica opinione che, a volte, sa essere feroce. Ma c’è di più. Come nel caso di Abou la dimensione razziale ha svolto la sua parte, in questo caso il fatto di trovarci di fronte ad una donna giovane, bella, “scaltra”, con un “toy boy”, non è sembrato vero alla narrazione machista che guarda il mondo dal buco della serratura. E che cerca la rappresaglia portando colpi alla dimensione affettiva, la gestione della bambina, e alla sua intimità, come nel caso del ciclo mestruale, per ricattare e umiliare la detenuta è semplicemente inaccettabile. Per l’Europa la gestione di questa crisi è un passaggio di civiltà decisivo, perché la giustizia e la ricerca della verità giudiziaria siano fondate sulla presunzione di innocenza e lo stato di diritto. Le lapidazioni combattiamole ovunque e in tutte le forme possano manifestarsi. In Europa e nel resto del mondo.