Abbiamo incontrato Marco Mancini mentre con il suo libro “Le regole del gioco, dal terrorismo alle spie russe”, edito da Rizzoli, sta girando l’Italia. La sua storia è quella di un servitore dello Stato che arruolatosi Carabiniere, è entrato nella sezione speciale Anticrimine del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, partecipando a operazioni contro le Brigate Rosse, Prima Linea e NAR in Italia e Francia. Poi agente segreto dal 1984 al 2021, già responsabile controspionaggio e controterrorismo del SISMI. Ha diretto personalmente operazioni clandestine in Russia, Medio Oriente, Africa e Afghanistan. Tornato in Italia da dirigente generale al Dis e titolare reparto amministrativo dell’intelligence italiana, è saltato sulla mina dell’ormai notorio Autogrill. Mistero coperto – caso unico per una trasmissione Rai – dal segreto di Stato.

Mancini, lei ha operato per anni in Medio Oriente. Su Israele e su dove si nasconde Sinwar ha detto più lei in pochi minuti su La7 che cento talk show pieni di inviati. Quello è uno scenario che andrebbe maneggiato con cura da chi ha occhi e orecchie a terra…
«Ha detto bene: occhi e orecchi a terra. I successi conseguiti dall’intelligence italiana in Medio Oriente, sin dai tempi del capo dei servizi in Libano, Colonnello Giovannone, nascono non da analisi asettiche di geopolitica astratta, ma di lavoro sul campo, dalle relazioni personali con le parti in conflitto. I miei colleghi ed io abbiamo continuato a sviluppare questo metodo dove certamente si usa quel che la tecnologia mette a disposizione senza lasciarsene dominare, privilegiando cioè il fattore umano. Proprio l’eccessiva fiducia nella cybersicurezza ha condotto Israele al disastro del 7 ottobre. Leggo che però in Italia ci si appoggia quasi esclusivamente ad analisi geopolitiche e analisi di internet. Non ne nego affatto l’importanza. E pure la penetrazione pressoché totale dell’intelligence russa anche nel Dark e Deep web non è riuscita a impedire una aggressione terroristica elementare, condotta con modalità da trogloditi abietti: entra e spara».

Com’è lo stato di salute della nostra intelligence, oggi?
«Non ne faccio più parte, come si sa. Ritengo che occorrerebbe essere più prudenti nel vantare come successo dell’intelligence l’allontanamento dall’Italia di elementi radicalizzati dell’Islam e poi si è scoperto stavano preparando attentati. Ma che intelligence è quella che scopre dopo l’espulsione che gli espulsi stavano preparando attentati? L’intelligence come dice l’etimologia della parola, legge tra le righe della realtà, scopre elementi reali, non si limita al sentore di pericolosità, e arriva ad individuare una rete terroristica che nel suo costituirsi commette già reati da sottoporre, tramite la polizia giudiziaria, alla magistratura per decisioni conseguenti di arresto».

Ci fa qualche esempio?
«Il caso Walter Biot, un ufficiale della Marina Militare italiana reclutato sul nostro territorio nazionale da spie russe. L’intervento dei carabinieri del Ros è stato un successo per loro ma, purtroppo, non del controspionaggio italiano. La spia italiana è stata arrestata quando aveva già passato segreti della Nato ai russi, roba molto serie e di livello alto di segretezza, come documenta la condanna a circa 50 anni. L’intelligence è fatta per prevenire. Cosi pure il controspionaggio avrebbe dovuto prevenire l’evasione e la fuga di Artem Uss in Russia, fuggito tranquillamente in auto dagli arresti domiciliari, mentre era attesa la decisione della sua estradizione negli Stati Uniti per gravi reati connessi al traffico di tecnologia militare a favore della Russia. Infine, è appena il caso di accennare al transito in Italia di un pericoloso terrorista: Anis Amri, noto per aver ucciso 12 persone e ferite altre 50 al mercatino di Natale a Berlino nel dicembre 2016, ucciso qualche giorno dopo a seguito di un conflitto a fuoco con la Polizia di Stato a Milano».

È vero, come traspare dal suo libro, che lei stava mappando la rete degli agenti russi in Italia quando le sue attività sono state ruvidamente e misteriosamente interrotte dal caso Autogrill-Report?
«No comment nel merito. Di certo qualcuno ha brindato con la vodka per il mio prepensionamento. Non so dire se vi siano effettivi collegamenti tra i servizi segreti russi e la vicenda dell’Autogrill, ma non ho elementi per escludere. Ciò che mi lascia perplesso è che nel corso delle indagini difensive svolte dai miei legali nella vicenda dell’Autogrill, in riferimento ad alcune domande se dietro l’operazione diffamatoria vi fossero collegamenti con servizi russi, è stato opposto e apposto il segreto di stato».

La preoccupano le minacce di Putin, o sono solo il delirio di un leader disperato, cacciatosi in un vicolo cieco?
«Le minacce sono serie, e Putin non è disperato ma preoccupato e avverte che il suo consenso non è monolitico, e anche nei suoi servizi segreti si sta creando una corrente che guarda per la prima volta a una Russia senza Putin. E’ una tigre ferita, davanti alla quale: guai a dividersi».

Alcuni consiglieri tra i più vicini a Putin gli avrebbero suggerito negli ultimi giorni di trattare con Kiev, e avrebbero fatto una brutta fine, è vero?
«Mi risulta che alcuni dirigenti dell’Fsb siano deceduti repentinamente e forse non di morte naturale. Tutti avevano avanzato proposte a Putin per arrivare ad una pace nel conflitto ucraino. Ancora oggi Putin ha un grosso problema negli apparati di sicurezza, alcuni alti dirigenti dei servizi segreti russi hanno mostrato ostilità e disappunto nei confronti delle scelte politiche di sicurezza interna».

Ma come si spiega la dinamica dell’attentato di Mosca? Polizia ovunque, telecamere ovunque, un arresto ogni minuto se deponi un fiore e poi si può fare un attentato che dura venti minuti e si lascia fuggire via il commando?
«Siamo davanti a un sostanziale fallimento dell’intelligence russa, ovvero dell’Fsb. Anche in questo caso troppa fiducia nella tecnologia e incauto abbandono del fattore umano».

La targa bielorussia, la rotta verso sud… tutto un depistaggio?
«Sì. Ritengo un volgare depistaggio della Polizia russa».

Chi erano davvero gli attentatori?
«Sono terroristi dell’Isis K».

Che cos’è Isis K? Quanti sono i suoi componenti, secondo le sue informazioni?
«L’Isis K è una organizzazione terroristica sunnita. Nata nel 2014 nell’Afghanistan dell’Est, il capo si chiama Shahab al Muhajir, nick name Sanaa allah al Sadic, trent’anni, ingegnere, cittadino iracheno. Isis K può contare su oltre 2000 terroristi, male addestrati ma molto pericolosi».

E’ vero che Putin ha penetrato completamente, in gran segreto, i gangli vitali dei talebani costruendo una dipendenza di fatto di Kabul che parte dalla morsa dei servizi segreti russi?
«Confermo. Da circa due anni i servizi segreti militari russi Gru ha ripreso contatti con l’intelligence talebana. Insieme,a Kabul, stanno ricostruendo il servizio segreto afghano».

Questo abbraccio mortale sull’Afghanistan, di cui mi sembra non si sia mai parlato, può essere a monte dell’operazione di ritorno dei talebani che ha visto gli americani protagonisti di una fuga precipitosa e imbarazzante? Se fosse vero, sarebbe lecito ipotizzare che la decisione di invadere l’Ucraina sia nata all’indomani della penetrazione dei servizi russi a Kabul, dove hanno misurato sul campo le vulnerabilità occidentali?
«Che l’Occidente fosse malissimo informato sull’Afghanistan lo compresi subito anch’io dalle ferie quando era stato già decretato il mio pensionamento. A metà giugno del 2021 al G7 in Cornovaglia, su circa 70 punti contenuti del documento finale sottoscritto dai leaders dell’occidente più il Giappone, la questione dell’Afghanistan risultava al 53mo posto. Ordinaria amministrazione. Sapevo per esperienza e per notizie dirette che non sarebbe andata così. Mancava in realtà qualche settimana alla capitolazione americana mascherata da serena ritirata strategica. Draghi andò al G7 disinformato come tutti».

Ci sembra di capire che lei ha ancora informazioni di prima mano, è così?
«Ci sono due tipi di conoscenze che ho portato e porterò con me qualunque sia la mia posizione nel mondo: anzitutto il patrimonio di esperienze accumulato sul campo che mi aiuta a leggere i fatti di terrorismo, e in secondo luogo, fatto ancora più importante, il legame di fiducia con persone di tante zone del mondo che hanno lavorato con me per difendere vite umane. È straordinario e per me motivo di gratificazione interiore constatare che questa amicizia operativa continua. Vuol dire che abbiamo lavorato bene noi servizi segreti italiani».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.