Il ministro Fitto lascia l’aula frettoloso. Anche il ministro Lollobrigida, in genere disponibile con i giornalisti, non si concede. Il capogruppo Foti non si fa vedere. Il capo organizzativo del partito, Giovanni Donzelli, saluta ma tira dritto. E il ministro per i Rapporti col Parlamento Luca Ciriani sibila a labbra strette: “Dimissioni del sottosegretario Delmastro? E perché, è solo un rinvio a giudizio…”. Vero, per rivelazione di segreto d’ufficio però e poiché si parla del sottosegretario alla Giustizia, magari c’è un problema di opportunità. Nulla, anche Ciriani si è già dissolto nei corridoi laterali all’aula, nei pressi dell’aula del governo.
Che giornataccia per i Fratelli d’Italia. Una di quelle che sfidano la già crudele legge di Murphy, che se poteva andava male è andata addirittura malissimo. La notizia di Delmastro arriva a fine mattinata. Gli avvocati confessano che si aspettavano un non luogo a procedere anche perché è la seconda volta che, nella ricostruzione della fuga di notizia dal ministero sul caso Cospito, la procura (il pm Paolo Ielo) chiede l’archiviazione e il non luogo a procedere. Per la seconda volta, la prima volta a marzo scorso, l’ufficio del gip valuta diversamente e dispone il giudizio. La prima udienza sarà il prossimo 12 marzo. Le opposizioni, a cominciare dal verde Bonelli che per primo fece l’esposto, hanno chiesto dimissioni, mozioni di sfiducia, ritiro delle deleghe. Verini (Pd) si chiede perché il ministro Nordio abbia coperto il suo sottosegretario minimizzando la rivelazione di atti riservati (“ma non segreti” disse il ministro) che il sottosegretario consegnò al compagno di stanza Donzelli che poi lui usò in aula accusando il Pd (che era stato in cella a trovare Cospito) di essere “amico di terroristi e mafiosi”.
Quando Meloni era all’opposizione
Giorgia Meloni ha blindato il suo fedelissimo. La linea è questa. E stasera la premier partirà per Cop28 a Dubai considerando chiusa la faccenda. In attesa del processo, del primo, del secondo e anche del terzo grado di giudizio. Quando era all’opposizione bastava anche il rinvio a giudizio per attaccare a testa bassa il malcapitato di turno. Garantisti a la carte, insomma, i Fratelli d’Italia. Italia viva invece resta coerente: innocenti fino alla Cassazione. Non era certo questo però il complotto evocato dal ministro Crosetto nella ormai famosa intervista in cui ha ventilato che il principale e unico nemico del governo in questo momento è “l’opposizione giudiziaria”, una qualche inchiesta sganciata con il timer dell’agenda politica.
Il problema è che ieri è andato tutto storto. E anche quello che poteva andare diritto, ci ha pensato Salvini ad incrinarlo insistendo sulla proroga del mercato tutelato per le famiglie italiane. Peccato che il governo ne abbia deciso la fine nel Consiglio dei ministri di lunedì.
Il ministro Lollobrigida ha potuto finalmente dare in presenza la sua versione sull’ormai nota fermata “dedicata” a Ciampino del Freccia Rossa che doveva portarlo da Roma a Napoli ma che aveva accumulato un ritardo di cento minuti. Interrogato in aula alla Camera dai 5
Stelle, il ministro dell’Agricoltura non ha nei fatti risposto all’unica domanda che conta: chi ha autorizzato la sua discesa? Il ministro ha invece nuovamente spiegato perché lo ha fatto “assolvendo ai propri doveri istituzionali e senza abusare in alcun modo del ruolo”. Anzi: il suo scrupolo era arrivare in tempo a Caivano (ore 15) dove lo aspettavano ragazzi, ragazze, studenti del nuovo istituto Agrario, forze dell’ordine e sacerdoti. “C’era anche la minaccia del brutto tempo e non mi sembrava serio farli aspettare”.
A sua discolpa ha citato un’intervista di don Patriciello, il prete che negli anni è diventato uno dei pochi baluardi di legalità di quel comune, in cui ha spiegato il valore e l’importanza di vedere lo stato e il governo a Caivano. Il punto è che tra sacerdoti e bambini, Lollobrigida non ha spiegato nulla circa le modalità grazie alle quale a Roma Ciampino ha potuto scendere da quel treno. Nella capigruppo del pomeriggio, Davide Faraone (Iv) ha chiesto che Salvini (in quanto ministro delle Infrastrutture e quindi responsabile anche del trasporto ferroviario) e Crosetto “vengano subito a chiarire in aula. Ogni ulteriore ritardo è un tentativo di affossare la verità”. Matteo Renzi va oltre: “Lollobrigida inqualificabile, non escludiamo la mozione di sfiducia individuale”. Sulla stessa linea la segretaria del Pd Elly Schlein. Sanno bene, entrambi, di andare a toccare il nervo vivo della coalizione visto che sono stati due leghisti doc come il capogruppo Romeo e il vicepresidente del Senato Giammarco Centinaio a giudicare “non opportuno” il comportamento del ministro. Poco credibile Lollobrigida anche sui “suini mandati al macello perché colpiti da peste suina” e che sarebbero stati maltrattati.
Il nervosismo di Fitto
Nervoso anche Fitto. Interrogato dal Pd sulle reali prospettive del Pnrr dopo i numerosi annunci degli ultimi giorni, le uniche certezze sono che la Commissione europea ha approvato la riprogrammazione richiesta dal governo Meloni e il pagamento della quarta rata (16,5 miliardi). Tutte ottime notizie, senza dubbio. Il problema è il dettaglio. “Sulla modifica del nuovo Pnrr abbiamo ascoltato toni trionfalistici dal ministro Fitto che non riusciamo a condividere” ha spiegato Piero De Luca (Pd). “La premier ha annunciato di aver ottenuto oltre 21 miliardi in più per l’Italia. Ma questa è una bugia poiché si tratta invece di 2,8 miliardi legati agli adeguamenti tecnici del nuovo capitolo REPowerEU. La cosa peggiore è che stralciate progetti strategici per l’Italia: oltre 100mila nuovi posti in asili nido, scelta grave; oltre 500 progetti di nuove case ed ospedali di comunità, decisione scellerata; circa 10 miliardi di progetti di riqualificazione delle periferie e di interventi nei comuni, operazione profondamente sbagliata. Dove avete spostato le risorse tagliate e con quali criteri? Avete rispettato l’equilibrio del 40% al Sud? Continuate a produrre fumo e promesse al vento”.
Dove stia la verità, lo capiremo solo negli anni. Il Pnrr invece è stato pensato apposta per essere verificato obiettivo dopo obiettivo. Anche questa è una sconfitta. Draghi presenta il libro di Cazzullo: «L’Ue faccia di più in Medioriente. Sconfitta Expo? Non credo a complotti»
Il Papa torna in pubblico ma non legge la catechesi per l’Udienza generale del mercoledì: «Ancora non sto bene».
L’impegno mancato
“Non si doveva correre, non c’erano le condizioni”. L’ammissione di Antonio Tajani arriva tardi, all’indomani della più umiliante bocciatura possibile per la candidatura italiana ad Expo2030. Cosa non ha funzionato? In una parola: tutto. Il progetto dell’urbanizzazione espositiva era risibile: neanche 10 miliardi di investimento complessivo, a fronte dei 190 miliardi messi in campo per rifare il volto di Riad. Come far correre un velocista con le migliori scarpe accanto a uno svogliato con le pantofole bucate. Il governo Meloni, che ha ereditato il dossier Expo da Draghi, non era motivato. Non lo ha mai sentito come un suo progetto. E infatti è mancato l’impegno finanziario, sono stati tenuti al minimo sindacale gli uffici. Non ci sono stati gli accordi internazionali, i viaggi di Gualtieri per convincere gli stati membri del Bie a votarci sono stati meno di una decina, a fronte delle ottanta missioni finalizzate ai tempi di Milano da Letizia Moratti. Tutto in versione minimal, all’insegna di quel veleno che è l’eredità grillina della più rigida sobrietà a fronte del gigante saudita che ama l’eccesso e lo sfarzo. E ieri sull’occasione mancata si sono fatte sentire le campane della destra e della sinistra, naturalmente rinfacciandosi la responsabilità dello schiaffone internazionale.
C’è stata chi, come Elly Schlein, ha tirato di nuovo in ballo l’oro nero come vero artefice della decisione: “Peccato, poteva essere un evento importante che porta nel Paese investimenti, ma mi sembra che ormai in questo tipo di scelte pesano considerazioni che non dovrebbero pesare, i petrodollari”.
E aggiunge:
“Porto sempre al polso il braccialetto giallo di Giulio Regeni”, cosa che però riguarderebbe, semmai, l’Egitto e non l’Arabia Saudita. Pazienza. “I grandi eventi andrebbero portati in Paesi rispettosi dei diritti”. Dalle parti del governo l’ordine di scuderia è non parlare più della bocciatura di Roma. A poche ore dalla disfatta, il fattaccio va derubricato e archiviato in fretta. “Eh, ancora a chiedermi di Expo!”, si spazientisce infatti con il Riformista Tajani, che raggiungiamo a margine dell’incontro sulla semplificazione organizzato dalla ministra Casellati a Palazzo Wedekind.
Lì sfila mezzo governo, tutto arroccato sulla linea del “day after”: non è successo niente, guardiamo al futuro. Alessandro Cattaneo, deputato di Forza Italia: “Se vogliamo parlare di responsabilità politica, bisognerebbe fare riferimento al governo della città di Roma, visto che il commissario di Expo indicato da Draghi è il sindaco Gualtieri, espressione del centrosinistra”. Anche in Campidoglio, il giorno dopo la figuraccia mondiale, bocche cucite. “L’Europa non vota mai unita”, si limita a osservare Gualtieri.
Il quale prima di arrivare in Campidoglio si era occupato esclusivamente di rapporti europei. “Il nostro piano Next generation Rome da 13 miliardi prescindeva da Expo, che sarebbe stata la ciliegina sulla torta. Ma lo realizzeremo lo stesso”, annuncia. Certo se i conti per le coperture economiche sono stati fatti come quelli con i voti a sostegno della candidatura, i romani possono aspettare in eterno. Aver contato tra i 40 e i 50 stati membri a sostegno fino alla vigilia e trovarsi solo 17 voti nell’urna è indicativo di quale sia il vero indice di gradimento della premier nel mondo. L’isolamento di Giorgia Meloni è spia della contraddizione dei rapporti a corrente alternata dei sovranisti, che non riescono a giocare di sponda né con l’Europa né nel contesto globale. E mostrano in questi frangenti tutta la loro debolezza. “La nostra esperienza con Expo2015 fu tutta diversa”, ricalca Bobo Craxi, all’epoca Sottosegretario agli Esteri. “Avevamo una reputazione internazionale di grande rispetto, la macchina organizzativa era perfetta, il ruolo della Farnesina fu impeccabile. Io e Letizia Moratti ci eravamo divisi il lavoro, ci alternavamo anche nelle missioni all’estero. Che erano concentrate tra il venerdì e il lunedì mattina per non togliere tempo alle altre attività: la mia al Ministero degli Esteri e la sua al Comune di Milano”. Craxi e Moratti, due cognomi non indifferenti per molti interlocutori. “Quando andavo in visita nelle capitali del mondo arabo, o in Africa, non per caso venivo ricevuto dalle personalità più alte”. Expo2015 venne inaugurata da Matteo Renzi il 1 maggio di quell’anno, in un momento in cui l’Italia era al centro di un sistema di relazioni autorevoli e godeva del massimo rispetto. “Pensammo di dedicare Expo2015 agli obiettivi dell’agenda Onu e le Nazioni Unite ci diedero il bollino ufficiale mentre eravamo ancora candidati. Smirne, la città turca nostra competitor, non si oppose”, rievoca ancora Bobo Craxi. “Da parte del governo l’assenza nel giorno della decisione deve essere suonata come una dichiarazione di resa”, aggiunge l’esponente socialista. Una resa che era nell’aria già da un po’, ammettono mestamente in molti, a bocce ferme. È la conclusione di Paolo Liguori, che Expo2015 l’aveva seguita giorno per giorno, con le telecamere di Mediaset: “L’occasione mancata di Expo è un’illusione: non c’è mai stata alcuna vera occasione per battere l’Arabia Saudita”.