Altro che affair d’amour con Giovanni Falcone. Il libro di Ilda Boccassini, nella parte in cui racconta la sua vita siciliana, è storia di guerra tra toghe, di quelle in cui non si fanno prigionieri. Al centro la figura e il ruolo di Vincenzo Scarantino, Enzino, il meccanico del quartiere palermitano della Guadagna, quello che si era autoaccusato dell’omicidio di Paolo Borsellino senza neanche sapere chi fosse e che non conosceva neppure via D’Amelio, il luogo dove collocare la 126 rubata stipata di 90 chili di tritolo.

Siamo a Caltanissetta nel periodo successivo alla strage di Capaci, quando Ilda Boccassini era impegnata nelle indagini sulla morte di Falcone (un suo ex collega milanese, Guido Salvini, ha fatto notare nei giorni scorsi quanto inopportuno sia stato quell’incarico, dopo la diffusione del legame sentimentale tra i due) e le aveva portate a termine nell’arco di due anni. Stava quindi per tornare a Milano, siamo nell’ottobre del 1994, quando venne incaricata dal procuratore Tinebra di andare al carcere di Pianosa per interrogare un certo Scarantino che si era dichiarato disponibile alla collaborazione. Lei non ne aveva voglia, e ancor meno sarà entusiasta di quell’incarico in seguito, quando si renderà conto del fatto che quel nuovo aspirante “pentito” con le sue dichiarazioni rischiava di incrinare lo stesso castello accusatorio che proprio lei aveva messo in piedi con le richieste di rinvio a giudizio per la strage di Capaci dell’intero vertice di Cosa Nostra sulla base delle accuse di tre collaboratori, Salvatore Cancemi (quello che aveva inventato il ruolo di Berlusconi nella strage), Santino Di Matteo e Gioacchino La Barbera.

Vincenzo Scarantino sarebbe parso inattendibile a chiunque, tranne che ai suoi difensori d’ufficio come i pm palermitani Nino Di Matteo e Antonio Ingroia, insieme a una squadra di poliziotti e al questore Arnaldo La Barbera, che lo avevano a lungo imbeccato e coccolato. Ma va a merito della dottoressa Boccassini e del suo collega Roberto Saieva il fatto di aver fiutato da subito il falso “pentito” costruito a tavolino nel carcere speciale di Pianosa. Certo la capacità di intuito dei due magistrati sarebbe stata più limpida se avessero avuto il coraggio di raccontare come e perché, e soprattutto con quali metodi, il picciotto della Guadagna era stato portato a inventarsi una volontà di collaborazione che probabilmente non era mai stata neanche nelle sue fantasie più audaci. Una sola parola: tortura. Il fatto fu denunciato dalla moglie del falso “pentito” con una lettera che accusava esplicitamente il questore La Barbera e il clima creato nel carcere di Pianosa: si andava dalle secchiate di acqua gelida buttata all’improvviso dentro le celle sui detenuti dormienti fino a vermi e pezzi di vetro trovati nei cibi. Per non parlare di botte e pestaggi che erano all’ordine del giorno. Quel che diceva la moglie di Scarantino sarà oggetto di diverse interrogazioni di parlamentari che erano andati a verificare di persona le condizioni del carcere e dei detenuti, e poi confermato da alcune sentenze della Cedu che aveva condannato l’Italia proprio per quei “sistemi educativi”.

I pm Boccassini e Saieva, preoccupati per le parole di Scarantino che miravano a coinvolgere nella strage di via D’Amelio quei tre “pentiti” che erano stati fondamentali per l’altra strage, quella di Capaci, avevano stretto da subito l’aspirante collaboratore su alcuni particolari in cui si era contraddetto. Salvatore Cancemi, il giorno della riunione preparatoria della strage, aveva i baffi? E Di Matteo aveva la barba? Il povero Scarantino aveva barcollato, ed era apparso chiaro che lui aveva descritto le persone che avrebbero partecipato all’incontro dopo aver fissato la loro immagine secondo quello che aveva visto sui giornali. Qualcuno di loro non lo aveva neanche mai conosciuto. Così avevano detto i tre “pentiti”. Del resto, ben diverso era tra loro il livello di importanza nel mondo di Cosa Nostra. Anzi, il meccanico, pur avendo qualche parentela di rango, probabilmente non ne aveva neppure mai fatto parte.

Pur con il limite di occuparsi solo dei “suoi” tre pentiti (altre persone innocenti fecero ingiustamente 15 anni di carcere), Ilda Boccassini ebbe coraggio. Insieme al suo collega Saieva fronteggia tutto il gotha degli inquirenti che volevano a tutti i costi dare credibilità al “pentimento” di Enzino: il procuratore capo Tinebra, i sostituti Palma, Petralia, Giordano, Di Matteo. Scrivono due relazioni, che prenderanno anche la via di Palermo, ma che verranno ignorate. Ormai il processo è costruito e non si torna indietro. Si muoverà addirittura il procuratore di Palermo Giancarlo Caselli, dopo la pubblicazione della lettera della moglie di Scarantino, a difendere in una conferenza stampa, convocata all’apparenza per salvaguardare la reputazione del questore La Barbera, il picciotto della Guadagna. Purtroppo di tutto ciò nel libro di Ilda Boccassini non si parla. Lei pare invece molto presa dalla polemica con i colleghi. Con il procuratore Tinebra, per esempio, che lei stessa ha visto appartarsi con l’aspirante “pentito” ogni volta che lui pareva recalcitrante ad aggiungere particolari ai suoi racconti. Del resto, nei vari processi, undici per la precisione, che si sono tenuti sull’omicidio Borsellino (proprio nei giorni scorsi la Cassazione ha detto la parola definitiva sul “quater”) sono emerse annotazioni scritte di pugno dai pm, e poi i suggerimenti e le vere e proprie “lezioni” che venivano impartite ai “pentiti” in preparazione delle udienze dibattimentali. Tre poliziotti sono ancora indagati a Caltanissetta, mentre due pm sono stati prosciolti.

Eppure restano indimenticabili le parole del pm Nino Di Matteo, che svolse la requisitoria al processo nel 1998 e che così stigmatizzò qualunque osservazione critica sulla genuinità di quella testimonianza, di quel continuo ammettere e ritrattare del “pentito”: «L’avvicinamento dei collaboratori per costringerli a fare marcia indietro è diventata una costante nella strategia di Cosa Nostra». E poi ancora: «Lo sparare a zero sui pubblici ministeri, l’accusarli di precostituirsi arbitrariamente le prove a carico dei loro indagati, è diventato una sorta di sport nazionale, praticato non tanto dai pentiti, ma da molti di coloro che hanno lo scopo di far esplodere il sistema giudiziario». Dieci anni dopo, sarà la sua ipotesi a esplodere, con la testimonianza di Gaspare Spatuzza, cui lui non volle mai dare credito, scontrandosi di nuovo, spalleggiato da Antonio Ingroia, nel corso di un vertice nazionale di procuratori “antimafia”, con Ilda Boccassini. La Grande Bufala costruita intorno a Vincenzo Scarantino è stata fatta a pezzi. E subito dopo anche quella della Trattativa Stato-Mafia. Poveri procuratori, quanti fallimenti! E finalmente il “Borsellino quater” ha fatto un po’ di giustizia. Ma intanto Di Matteo ha fatto carriera fino al Csm e Boccassini è andata in pensione.

(2 – Fine)

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.