Dopo più di cinque mesi, il luogo del rave party, simbolo del massacro del 7 ottobre, è diventato una meta di pellegrinaggio. Il prato dove si erano raccolti migliaia di giovani è ora una distesa di foto delle persone uccise, dei rapiti e con le immancabili bandiere israeliane che sventolano ovunque. I soldati delle Israel defense forces, soprattutto i più giovani, si recano in gruppo a commemorare tutte le vittime o un amico ucciso nell’assalto di Hamas. Mentre tante sono le persone comuni che vanno a pregare o semplicemente a ricordare un evento che ha cambiato, forse per sempre, la storia di israeliani e palestinesi. Dove ora arrivano i pullman, c’era il parcheggio in cui i ragazzi hanno cercato la loro auto per fuggire dall’attacco.
Il rifugio antimissile, tragicamente inutile per un agguato che è arrivato via terra e in modi e luoghi in cui nessuno se lo aspettava, è ricoperto di adesivi in ricordo di alcune delle vittime. Per chi era lì e può ancora parlarne, un trauma che rimarrà scolpito per molto tempo. Elay Karavani, uno dei sopravvissuti all’attacco al rave di Nova Reim, assicura che non potrà mai dimenticare quello che ha vissuto in quelle ore di paura. La fuga disperata dopo il “colore rosso”, l’allarme che annuncia un attacco imminente, le macchine in fila per cercare di scappare, la decisione di nascondersi in mezzo alla boscaglia e alle dune nella speranza che i miliziani di Hamas non li catturassero o li uccidessero. Gli spari ovunque, dal basso, dalla strada, ma anche dall’alto, con i deltaplani.

E infine l’arrivo dei soldati che ha dato un primo segnale di speranza. A raccontare la sua esperienza è anche Youssef Ziadna, un beduino arabo-israeliano che quel giorno aveva guidato il suo pulmino per portare dei ragazzi al rave. Dopo l’attacco, gli è arrivato il messaggio disperato di uno di loro che chiedeva aiuto.
E l’uomo, 47 anni e una famiglia, non ci ha pensato un attimo: è partito per l’area del massacro e iniziato a cercare tutte le persone che aveva portato al festival ma anche a salvare coloro che feriti o nascosti tra i cespugli erano riusciti a rimanere in vita.
I beduini del Negev conoscono molto bene la zona di Nova Reim. Sanno dove guidare, ed è anche per questo che il suo pulmino è riuscito a salvare tanta gente, perché ha deciso di lanciarlo tra le dune fuoristrada mentre tutti provavano a fuggire passando sulle strade diventate ormai luogo di morte. “Non tutti ce l’hanno fatta”, racconta Youssef mostrando commosso la foto di un soldato ferito con lui che è morto alcuni minuti dopo averla scattata. E quel trauma è lo stesso di chi ha dovuto compiere uno dei lavori più difficili e purtroppo necessari dopo il massacro: l’identificazione dei corpi tra il luogo del rave e i kibbutz assaliti. In lontananza, sui luoghi della tragedia, si sentono le bombe e i missili che ora vengono lanciati nella Striscia di Gaza.

A pochi chilometri da quel luogo dell’orrore, gli aerei e le truppe delle forze armate israeliane martellano le milizie palestinesi mentre la comunità internazionale chiede al premier Benjamin Netanyahu di porre fine al conflitto e di fare il possibile per alleviare le sofferenze di una popolazione ormai alla fame.
Il corridoio marittimo è un tentativo per dare una boccata d’ossigeno, ma non può bastare a fronte di milioni di civili che sopravvivono solo grazie agli aiuti umanitari dall’esterno e che passa necessariamente per i check-point di Israele.
E mentre Netanyahu promette l’avanzata su Rafah, le Idf cercano di fornire agli Stati Uniti dei piani dettagliati per tutelare la popolazione da un attacco che per il governo israeliano è risolutivo, ma che rischia di creare una tragedia umanitaria.
Di fronte a questo dilemma, le Tsahal vogliono mostrare piena unità di intenti con il decisore politico. Per il maggiore David Baruch, riservista che fa parte dei portavoce internazionali delle Idf, la guerra finirà “quando Hamas non sarà più un pericolo per Israele”.

“La guerra non è semplice, Hamas passa da un tunnel all’altro ed è un conflitto che deve essere meticoloso” racconta rassicurando che finché gli ostaggi non saranno liberati e le milizie non saranno sconfitte, non ci sarà pace.
Raggiungere questo obiettivo, però, non sembra affatto semplice, e il pressing internazionale punta a una soluzione.
A Doha, i delegati di Hamas e Israele trattano con la mediazione di Egitto, Stati Uniti e Qatar per un’intesa sul cessate il fuoco e il rilascio di alcune delle persone rapite proprio nel luogo del rave o nei kibbutz lì vicino. Mentre il presidente Usa, Joe Biden, ha deciso di mandare ancora una volta nella regione il suo segretario di Stato, Anthony Blinken, impegnato prima in un vertice in Arabia Saudita e poi in Egitto.
Per il capo della diplomazia statunitense, si tratta del sesto viaggio in Medio Oriente dall’inizio della guerra. A conferma dell’intensa attività della Casa Bianca per cercare di regolare un conflitto che rischia di incendiare tutta la regione.
Su X, Biden ha commentato l’ultima telefonata avuta con Netanyahu dicendo di avere “continuato ad affermare che Israele ha il diritto di attaccare Hamas, un gruppo di terroristi responsabile del peggior massacro del popolo ebraico dai tempi dell’Olocausto”. Ma il presidente Usa ha anche detto di aver “ribadito la necessità di un cessate il fuoco immediato come parte di un accordo per la liberazione degli ostaggi, della durata di diverse settimane, in modo da poter riportare gli ostaggi a casa e aumentare gli aiuti ai civili a Gaza”. La volontà di Washington è chiara. Ma il governo israeliano sa che per raggiungere i suoi obiettivi deve anche passare per Rafah. Le due esigenze spesso appaiono inconciliabili.

E mentre le cancellerie mondiali sono preoccupate dalla crisi umanitaria, dalla fame che vive la Striscia e da un focolaio di guerra in grado di fare esplodere un incendio che va dallo Yemen all’Iran, passando per il Libano, la Siria e l’Iraq, l’esecutivo di Netanyahu vuole una vittoria che in qualche modo lenisca l’enorme buco nella sicurezza interna del 7 ottobre e il trauma di un’opinione pubblica ferita dall’attacco di Hamas e dagli ostaggi che ancora oggi non sono tornati a casa.
Riportateli a casa ora” è uno slogan che si può leggere ovunque nel Paese. Il metodo per arrivare a questo risultato però non è univoco. Se una parte vuole una tregua che permetta la liberazione dei rapiti, altri ritengono che solo la via militare possa porre fine a quello che per molti è incubo.
Nel frattempo, il cimitero delle macchine di Netivot, dove sono depositate e bruciate centinaia di automobili in cui sono morte molte delle vittime del 7 ottobre continua a operare senza sosta. Le ruspe spostano le carcasse dei veicoli, mentre altri sono lì con i fori dei proiettili e dei frammenti di razzi ben visibili sui parabrezza o sulle fiancate. Qualcuno ha messo delle candele, altri le considerano dei sacrai dove sono morte persone sconosciute ma anche propri cari.
La guerra è un affare della diplomazia e dei militari. Ma è poi nel concreto, tra la fame dei palestinesi e il dolore degli israeliani, che si combatte un altro conflitto. Interno ed esterno.