Nella tarda nottata tra il 28 e il 29 ottobre, anche dopo l’ultimo tassativo rifiuto di sostenere un suo governo da parte di Mussolini, Salandra non si arrende anche se ormai l’intero establishment italiano si è piegato. Inviano telegrammi al presidente incaricato, chiedendogli di passare la mano a favore del duce, industriali del calibro di Olivetti e la Confederazione dell’Agricoltura. Persino il direttore del Corriere della Sera Luigi Albertini, che pure nei suoi editoriali era stato molto critico nei confronti del fascismo, non vede più alternative e raccomanda di “dare l’incarico a Mussolini o mandare tutto alla malora”.

Salandra non si arrende. Assicura a De Vecchi la nomina a ministro della Marina poi chiede senza perifrasi: «E se facessi un governo senza fascisti?». Il quadrumviro antimarcia stavolta è tassativo: «Ci avrebbe contro». La stessa cosa De Vecchi ripete al re che ammonisce: «State commettendo un gravissimo errore». De Vecchi probabilmente concorda, ammette di pensarla come Salandra però, dice: «Mussolini rifiuta. In questo momento, quindi, non c’è altra soluzione che una presidenza Mussolini». Forse il presidente incaricato sarebbe per provarci comunque ma il re lo impedisce: «Sono costretto a ingoiare grandi rospi». Alle 9 della mattina Salandra rimette l’incarico. Vittorio Emanuele annuncia a De Vecchi l’intenzione di incaricare Benito Mussolini.

L’annuncio della vittoria al duce lo danno Grandi e Gaetano Polverelli, giornalista del Popolo d’Italia e uno dei ras dello squadrismo romano: “Devi venire subito a Roma per l’incarico”. Il duce non si fida: “Ho bisogno assoluto di avere un telegramma di Cittadini. Appena arriva partirò in aereo”. Il telegramma arriva: “Sua Maestà il re la prega di recarsi subito a Roma desiderando offrirle l’incarico di formare il Ministero”. Mussolini però non parte in aereo e neppure accetta il treno speciale organizzato da Lusignoli con partenza alle 15 del 28 ottobre. Si occupa dell’edizione straordinaria del Popolo d’Italia che annuncia trionfale la vittoria e parte in vagone letto alle 20.30 con Rossi e Aldo Finzi. Il treno arriverà alle 10.50, perché il duce si ferma per salutare i suoi squadristi e, a Civitavecchia, per passarli in rassegna. Alla stazione lo accolgono il prefetto, il questore, Polverelli, Acerbo e i quadrumviri tranne De Vecchi. Di lì Mussolini si sposta per una breve sosta all’Hotel Savoia e alle 11.45, in camicia nera, è di fronte al re, al Quirinale, invece in uniforme militare. «Chiedo perdono ma sono reduce dalla battaglia», si scusa il duce per la inadeguata tenuta che il sovrano non manca di segnalare.

A Roma e in tutta Italia la violenza degli squadristi si concentra soprattutto soprattutto contro i giornali colpevoli di non aver sostenuto la marcia. Molte redazioni vengono devastate e bruciate. Per alcune testate, tra cui il Corriere della Sera, le camicie nere ordinano la sospensione delle pubblicazioni. Alle 19 Mussolini torna dal re con la lista dei ministri e dei sottosegretari, stavolta vestito secondo il protocollo ma con indumenti rimediati un po’ ovunque: i pantaloni a righe glieli presta Finzi, il frac Cesare Rossi, il portiere dell’Hotel Savoia rimedia i gemelli e il cilindro è quello dimenticato in albergo da un cliente. Il duce tiene per sé l’interim di Esteri e Interni. Per il resto ci sono tre ministri fascisti, vari ministri dei partiti in coalizione tra cui Federzoni alle Colonie, i vertici militari, Diaz e Thaon di Revel, alla Guerra e alla Marina. Il fiore all’occhiello è il filosofo Giovanni Gentile all’Istruzione. Il giorno dopo le colonne entrano a Roma per una sfilata, guidata da Mussolini solo nei primi 10 minuti, che sfila per sei ore, con le camicie nere affiancate da quelle azzurre dei nazionalisti. Al Verano la colonna di Bottai viene accolta con lanci di mattoni, pietre e una bomba a mano. Bottai ordina la retromarcia poi un’azione di rastrellamento che costa 13 vittime, ma rappresaglie, assalti e omicidi proseguono fino a sera.

Mussolini aveva raggiunto una vittoria totale, che sarebbe stata sancita alla Camera il 16 novembre nel suo primo discorso da capo del governo: «Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco per i miei manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto». Il “primo tempo” si sarebbe concluso il 3 gennaio 1925, al termine della crisi seguita all’uccisione di Giacomo Matteotti, con un altro discorso, quello che segnò l’inizio della dittatura.
La sorprendente vittoria dei fascisti nell’ottobre 1922 fu dovuta all’abilità politica di Mussolini, alla sua capacità di ingannare nonostante la loro esperienza tutti i leader liberali ma anche e soprattutto alla maestria nel giocare sul tavolo della politica e su quello dell’insurrezione. Senza l’insurrezione non sarebbe stata neppure immaginabile la capitolazione completa del re e l’insurrezione poteva essere stroncata anche senza ricorrere allo stato d’assedio, con le disposizioni già in vigore: l’ordine di sparare se necessario e di arrestare i capi fascisti in caso di resistenza.

Ma quegli ordini furono applicati solo in rarissimi casi perché nei gangli dello Stato, a partire dal prefetto di Milano Lusignoli, e nell’esercito simpatie e complicità con il fascismo erano già dilagate. L’insurrezione fu fermata con i mezzi adeguati solo in pochissime città. Si affermò invece quasi senza incontrare resistenza nella maggior parte delle piazze e dilagò dopo la revoca dello stato d’assedio annunciato il 28 ottobre. Quando la sera del 28 ottobre il ministro della Guerra diramò la direttiva in base alla quale bisognava “usare mezzi pacifici e persuasivi” evitando spargimenti di sangue la vittoria di Mussolini era già completa. Vittoria sullo Stato liberale, ma anche sui ras che fino a quel momento ne avevano limitato l’onnipotenza anche all’interno del fascismo, come avevano dimostrato ignorando il patto di pacificazione firmato con i socialisti da Mussolini nel 1921.

Il colpo magistrale era riuscito grazie a una strategia tanto articolata da lasciare in seguito a lungo gli storici indecisi e divisi sulla risposta alla domanda chiave: la marcia su Roma c’era in realtà stata o no? La risposta migliore la diede probabilmente Bottai, che del regime fu la mente più lucida: «La marcia su Roma, prima di essere un proposito concreto, fu una formula propagandistica. Era la formula unitaria che Mussolini opponeva ai particolarismo dello squadrismo e allo sgomento della democrazia liberale». Una formula propagandistica che arrivava però dopo che in estate le squadre di Mussolini avevano conquistato il territorio con il ferro e il fuoco e che poteva funzionare solo grazie all’effettiva insurrezione nelle città del nord e del centro. Vittorio Emanuele consegnò il Paese al capo dei fascisti probabilmente perché convinto che fosse il male minore e che comunque sarebbe durato poco. Invece durò vent’anni.