Famiglie arcobaleno, il caso Padova e lezione dei padri Costituenti: la “società naturale” esiste prima dello Stato

Quando i nostri Costituenti scrissero l’articolo 29 della nostra carta fondamentale, scelsero di dire non soltanto che la famiglia era fondata sul matrimonio – in linea con le convenzioni e le convinzioni dell’epoca – ma, prima ancora, che era una “società naturale”. Con questa espressione intendevano dire che la famiglia esiste prima dello Stato, che essa non è creazione della legge ma che lo Stato deve soltanto riconoscere ciò che già esiste nella natura, nella società. Era una dichiarazione impegnativa e in prospettiva molto innovativa: l’articolo 3 già diceva che le persone non possono essere discriminate in base al sesso, gettando le basi della parità tra i coniugi, che sarà però riconosciuta soltanto nel 1975 dal nuovo diritto di famiglia.

Ma in questo modo si stabiliva soprattutto che nella Repubblica italiana non si sarebbe mai più verificata la vergogna del 1938, quando le leggi razziali (meglio, razziste) avevano vietato sia il matrimonio tra ebrei e “ariani” – stabilendo che un marito e una moglie non potessero creare una famiglia se non erano accomunati dalla stessa “razza” – come anche il “concubinaggio” (cioè la convivenza, il matrimonio nemmeno si poteva immaginare) tra un italiano e una donna di colore.
Una volontà molto precisa nel metodo: se la famiglia è una società naturale non è lo Stato che dice cos’è una famiglia. Dove c’è amore, dove c’è una casa, dove c’è protezione reciproca e solidarietà, lì c’è una famiglia. È per questo che la decisione della Procura di Padova di portare in tribunale 33 coppie con i loro bambini, per cancellare con effetto retroattivo il riconoscimento legale dei vincoli familiari costituiti e vissuti negli anni, ha creato sconcerto: lo spirito solidaristico e umanitario della nostra Repubblica, il quadro complessivo disegnato dalla Costituzione prima ancora delle sue singole norme, esclude che lo Stato possa recidere legami di protezione e di affetto tra un bambino e le persone che considera essere i suoi genitori.

L’esito dell’udienza di ieri, con la richiesta della Procura di rimettere alla Corte Costituzionale la valutazione dell’attuale quadro normativo, certo non guarisce la ferita portata a queste famiglie, alla loro vita, alla loro serenità e al loro equilibrio ma corregge quanto meno una rotta che appariva completamente inaccettabile, oltre che contraria al comune senso di umanità.
Certo, il fatto è che quando si arriva alla sfera della vita privata delle persone ci muoviamo spesso in un assoluto vuoto normativo: come si nasce, come si vive e ci si ama, come si muore sono tutte questioni assolutamente fondamentali davanti alle quali la politica si fa trovare costantemente paralizzata e incapace di decidere. Temi come questo diventano arene per memorabili battaglie identitarie, combattute sempre alla fine sulla pelle di cittadini che chiedono delle risposte e in particolare il riconoscimento delle decisioni che incidono sulla loro vita privata e che hanno tutto il diritto di vedere rispettate, non travolte, dall’autorità dello Stato. Un principio valido sempre, ma che diventa sacrale e intoccabile quando al centro ci sono dei bambini. Basterebbe in fondo soltanto che il nostro legislatore, la politica, legiferasse (facesse cioè il suo lavoro) rimettendosi alla saggezza delle nostre madri e padri costituenti. Che si limitasse a riconoscere nella legge, spogliandosi da ogni cascame ideologico, quelle società naturali – le famiglie, entità viventi che cambiano nel tempo e nelle epoche e non sopportano di essere cristallizzate – che sono il mattone sul quale costruiamo quotidianamente l’edificio della nostra comunità nazionale.