Gli sforzi per un cessate il fuoco a Gaza sono sacrosanti, ma non possono diventare il pretesto per fiancheggiare i pro-Pal che seminano odio contro il popolo ebraico. È questo il monito che lancia Piero Fassino, ex segretario dei Ds, tra i fondatori del Pd e leader di Sinistra per Israele. 

Onorevole Fassino, il clima in Italia dal 7 ottobre scorso è molto cambiato, nei confronti di Israele e delle comunità ebraiche. La preoccupa?
«Sì, mano a mano che ci si allontana dal 7 ottobre la gravità enorme di quel massacro è sfumata, prevalendo nell’opinione pubblica l’impatto di oltre 40.000 vittime di Gaza. E di conseguenza anche la solidarietà con Israele è venuta sempre più indebolendosi. Anche per le posizioni estreme della destra israeliana e l’azione squadrista di settori di coloni in Cisgiordania. Mi pare tuttavia che non si percepisca che quell’alto numero di vittime è stato causato non solo dell’azione militare israeliana, ma anche dalla scelta, cinicamente consapevole, di Hamas di strutturare l’intero territorio di Gaza in una base bellica, collocando strutture logistiche e militari, sotto e dentro scuole, ospedali, moschee, uffici, abitazioni civili, utilizzando la popolazione come un gigantesco scudo umano ed esponendola così a rischi mortali e a ogni tipo di sofferenza».

C’è il pericolo di scivolate anche intorno al Pd, tra i suoi dirigenti nazionali e locali? Dalle comunità ebraiche segnalano la partecipazione di esponenti dem a manifestazioni dal carattere offensivo e minaccioso verso l’integrità dello Stato di Israele.
«L’alto numero di vittime a Gaza, unitamente alla intransigenza politica di Netanyahu (che non ha mai fatto mistero di non accettare l’esistenza di uno Stato palestinese) spinge una parte di opinione pubblica a esprimere una solidarietà ai palestinesi che, tuttavia, spesso non conosce confini e deborda in manifestazioni antiebraiche e spesso antisemite. Un conto è sostenere il cessate il fuoco (che tuttavia spesso dimentica che l’ONU ha chiesto la liberazione “incondizionata” degli ostaggi israeliani). Ma ben diverso è abbracciare parole d’ordine come “Palestina dal fiume al mare” o predicare il boicottaggio delle Università israeliane o invocare sanzioni verso Israele, non rendendosi conto che “sanzioni” richiama alla memoria di ogni ebreo una drammatica storia di pogrom, persecuzioni razziali, segregazioni. E ancora più grave è chiedere conto della politica di Netanyahu a ogni ebreo ovunque viva nel mondo».

Sinistra per Israele esiste già da anni. Che bilancio ne può trarre?
«SxI nacque nel ‘67 all’indomani della guerra dei 6 giorni che aveva visto in tutto il mondo la sinistra solidarizzare con i paesi arabi sostenuti dall’Urss, mentre Israele godeva del sostegno degli Stati Uniti. Fu un momento di forte lacerazione nel mondo ebraico di sinistra tra chi in nome della identità ebraica abbandonava la sinistra e chi in coerenza con la propria appartenenza politica si allontanava dalla propria comunità. SxI nacque e in questi 60 anni ha agito per riconquistare un rapporto di fiducia tra sinistra e mondo ebraico e per superare stereotipi manichei su Israele. E lo sta facendo anche in questi mesi difficili battendosi contro ogni forma di pregiudizio antiebraico e per una soluzione della crisi mediorientale fondata sulla convivenza di 2 popoli in 2 Stati in pace e entrambi sovrani».

Il Medio Oriente è in fiamme. Ad Israele sta arrivando la solidarietà internazionale necessaria? L’eliminazione progressiva di sempre più cellule terroristiche, di altri leader delle formazioni terroriste è un elemento che aiuta, in prospettiva, anche noi?
«Nessuno può avere dubbi sulla necessità di combattere il terrorismo, senza alcuna forma di tolleranza verso le organizzazioni che praticano il terrore. Hezbollah, Houthi yemeniti, Hamas, Jihad sono organizzazioni che praticano il terrorismo e fomentano la guerra. Mi colpisce che si critichi Israele per le sue operazioni in Libano, dimenticando che dall’8 ottobre è Hezbollah che ha intrapreso una aggressione contro Israele lanciando ogni giorno missili esplosivi sulle città israeliane, provocando lo sfollamento di 80.000 israeliani dalle loro case. Così come da ben prima del 7 ottobre Hamas ha sviluppato una continua offensiva conto città, kibbutz e villaggi israeliani. A cui però non è arrivata nessuna solidarietà dal mondo pacifista.

La sinistra israeliana, con cui il Pd è maggiormente in contatto, auspica l’apertura di una fase politica nuova per il dopo-Netanyahu. Quali sono i tempi, a suo giudizio?
«Da mesi le piazze israeliane sono piene di cittadini che contestano la politica di Netanyahu, chiedono un cambio nella guida del paese e vogliono rilanciare un percorso di pace verso la soluzione 2 popoli/2 Stati che, pur nelle difficoltà di oggi, rimane l’unica strada in grado di pacificare la regione. Tuttavia bisogna essere consapevoli che è un processo non semplice perché il massacro del 7 ottobre ha prodotto un enorme shock nella società israeliana che si chiede con angoscia che cosa accadrebbe se la guida dello Stato palestinese cadesse nelle mani di Hamas. Ed è una domanda angosciosa che interroga anche noi.

Il conflitto, messi a tacere i proxy, si rivela nella sua chiarezza: Iran contro Israele. Come può evolvere (o precipitare)?
«L’azione israeliana ha smantellato la cintura di sicurezza che attraverso i proxy l’Iran aveva costruito intorno a sé. Oggi l’Iran deve decidere: o accantona finalmente la negazione di Israele oppure è destinato a subirne le conseguenze. Qui la comunità internazionale deve essere consapevole delle sue responsabilità. Non basta invocare prudenza. Bisogna agire per evitare un conflitto drammatico premendo sull’Iran perché dismetta la sua politica di aggressione a Israele».

In Iran si affacciano per la prima volta espressioni di dissenso più esposte, più coraggiose. La spinta per la fine della tirannia teocratica può venire dall’interno, dal basso?
«Difficile dare una risposta. Certamente è cresciuta nella società iraniana, soprattutto tra i giovani, l’opposizione a un regime teocratico sanguinario. Tuttavia la feroce repressione di ogni forma di dissenso soffoca le istanze di libertà. Si è guardato con qualche aspettativa alla elezione del nuovo presidente da cui ci si augura arrivino segnali concreti di una volontà di evoluzione».

La missione Unifil è stata colpita durante le operazioni in corso sul confine libanese. Per certi versi era da mettere in conto. La missione, partecipata dal contingente italiano, non ha compiti operativi né la possibilità di usare le armi. Fuori dai denti: a cosa serve?
«Colpire Unifil è inaccettabile. Si tratta di una forza internazionale di interposizione schierata per garantire l’applicazione delle Risoluzioni ONU e impedire azioni militari, in primo luogo di Hezbollah, nell’area tra Blue Line e il fiume Litani. La azione di Unifil è stata costantemente ostacolata da Hezbollah che non ha mai rispettato la Risoluzione 1701, insediando proprie strutture militari là dove era espressamente vietato».

Il ministro Crosetto dice che in Libano ci siamo e ci rimarremo. Ha ragione? Bisogna chiedere all’Onu di rivedere le regole di ingaggio?
«Sarebbe una dismissione di responsabilità abbandonare il Libano, dove in mezzo a mille difficoltà i militari italiani operano ogni giorno per impedire il peggio. Però non v’è dubbio che occorre una verifica delle regole di ingaggio e del mandato della missione per consentire a Unifil di svolgere con efficacia le sue finalità».

Tra tre settimane ci sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti. La sua elezione contribuirà a cambiare le sorti dei due conflitti, Medio Oriente e Ucraina?
«È evidente che le prospettive dei due conflitti non saranno le stesse se a guidare gli Stati Uniti sarà la Harris o Trump. E credo che prospettive di pace e sicurezza siano certo più garantite da una guida democratica della Casa Bianca».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.