Tante volte, osservando le giovani donne africane che studiano la nostra lingua portandosi dietro i loro figli più piccoli, di cui non si sa chi sia il padre, mi è tornata in mente Lena Grove, la protagonista di Luce d’agosto, uno dei capolavori di William Faulkner. Pubblicato nel 1932 e tradotto sette anni dopo in italiano per Mondadori da Elio Vittorini, leggibile nelle edizioni Adelphi, è un romanzo che non perde, anzi aumenta con il trascorrere del tempo, la propria forza rappresentativa.  Certo, con il suo andamento analitico ravvicinato, come potrebbe essere quello di una telecamera sulle spalle del regista che seguisse passo passo le azioni dei personaggi, resta un’opera ostica, ma a libro chiuso lascia sempre un fondo potente di evocazione simbolica.

Il romanzo comincia alla maniera di una vecchia ballata di paese, con volute ripetizioni di parole in chiave ritmico-percussiva e l’uso esibito del presente. L’attenzione del lettore è rivolta subito all’indimenticabile fuggiasca: «Seduta sul ciglio della strada Lena guarda il carretto salire verso di lei, e pensa: “Vengo dall’Alabama. Quanta strada! Tutto a piedi dall’Alabama, un bel pezzo di strada!” Pensando al tempo stesso: «E sono già nel Mississippi dopo neanche un mese che cammino, più lontano da casa di quanto non sia mai stata, più lontano dalla segheria di Doane di quanto, dopo che ho fatto i dodici anni, non sia mai stata». Considerazioni non dissimili potrebbero fare Ola, che ha attraversato il deserto del Sahara per sfuggire alla maledizione dei riti vudù; Fatimah, costretta a scappare dalla Nigeria dopo la morte del marito, o Kubra, che si lega alle spalle il primogenito addormentato dirigendosi verso la fermata dell’autobus.

La ragazza al centro dell’opera di Faulkner era stata messa incinta da uno sconosciuto di passaggio e, con tutta l’ingenua disinvoltura della sua gioventù, aveva deciso di ritrovarlo. A questo filo tematico, sempre tragicamente attuale, se ne intrecciano molti altri. Il nodo irrisolto delle origini oscure viene incarnato da Christmas, mulatto allevato in un orfanotrofio e poi adottato dal severo contadino McEachern, il quale, inoculandogli disprezzo e rancore, lo ha trasformato di fatto in un assassino. Si sente, in quest’anima nera, la presenza di Heathcliff, protagonista di Cime tempestose, un altro classico appena ristampato da Einaudi, anch’egli abbandonato da piccolo. Ma Faulkner, rispetto a Emily Brontë, è ancora più spietato, come se la solitudine umana non potesse essere lenita nemmeno dai languori paesaggistici del North Yorkshire, le cui brughiere stemperavano la tensione rivendicativa delle generazioni incapaci di scrollarsi di dosso il male ereditato. In Luce d’agosto le descrizioni, più che fondali, sono intercapedini della macchina narrativa. Ti fanno capire che il mondo avanza e non guarda in faccia nessuno. Le studentesse sopravvissute all’inferno libico, che sfoggiano gli smalti variopinti e si acconciano con le extension, lo sanno benissimo, anche se non saprebbero dirlo.

Quando Lena arriva a Jefferson, vede il suo seduttore, Brown, trafficare alcolici insieme a Christmas. Il padre non riconosce il bambino che la giovane madre porta in grembo. Infatti si dilegua in un battibaleno. Per caso o per destino la ragazza troverà in Byron Bunch l’uomo capace di sostenerla nel momento del bisogno, raccogliendo, come direbbe la coscienza popolare, quello che un altro aveva seminato. E, soprattutto, senza che gliene venisse niente in cambio. Nella speranza di un nuovo inizio: «Siamo ancora a lunedì», pensò. «Lo avevo dimenticato. Ma forse siamo a un altro lunedì. Sicuro. Siamo a un altro lunedì». Un’immagine, questa, che colpì la fantasia di Silvio D’Arzo, grande scrittore italiano nato il 6 febbraio di cento anni fa a Reggio Emilia, il cui ultimo vagheggiato e incompiuto romanzo si doveva intitolare proprio Nostro lunedì. «Gran Dio, gran Dio! – chiude così Lena Grove la sua lunga odissea di designata custode d’umanità, come potrebbero essere considerate le immigrate di oggi – Se ne può fare di strada, a questo mondo! Sarà neanche due mesi che siamo partiti dall’Alabama ed eccoci già nel Tennessee!».