Mail senza risposta e fascicolo sottratto
Fava capì che Amara bluffava e disse di fermarlo, ma Ielo e Pignatone lo ignorarono
Il pm Stefano Rocco Fava aveva ragione nel definire la collaborazione di Piero Amara con i magistrati un tarocco. Non era, dunque, un mitomane come qualcuno ha voluto far credere in questi anni. Nella settimana dell’arresto dell’avvocato siciliano da parte della Procura di Potenza, emergono nuovi inquietanti particolari, come la mail che pubblichiamo nella foto, sulla gestione del procedimento penale che gli era stato aperto a Roma.
Amara era stato arrestato la prima volta nel febbraio del 2018 a seguito di una operazione congiunta della Procura della Capitale e di quella di Messina che indagavano sul famoso “Sistema Siracusa”, l’associazione di magistrati e professionisti nata per aggiustare i processi. Dopo qualche settimana in carcere, Amara decide che è giunto il momento di “collaborare” con i pm. La collaborazione gli varrà, qualche mese più tardi, un patteggiamento a tre anni di reclusione e qualche decina di migliaia di euro di multa. Un “obolo” se si pensa che era accusato di associazione a delinquere finalizzata alla frode fiscale, alle false fatturazioni e alla corruzione in atti giudiziari in quanto in grado di pilotare le sentenze fino al Consiglio di Stato.
A giugno del 2019, per la cronaca, il patteggiamento romano diventerà definitivo. A Messina gli va anche meglio, patteggiando in continuazione la pena di un anno e due mesi di reclusione. Patteggiamenti regalati, dirà il sostituto pg di Messina Felice Lima rivolgendosi alla Cassazione per uno dei coindagati di Amara, l’avvocato Giuseppe Calafiore. «Come emerge dalla lettura dei capi di imputazione – aveva scritto Lima nel ricorso – si tratta di una delle più spudorate corruzioni sistemiche mai realizzate. Stupisce che la Procura di Messina abbia ritenuto legittimo tale patteggiamento». Lima aveva ricordato, a proposito di pene, che sempre a Messina «ad un ladro di uova di Pasqua erano stati dati quattro anni di carcere».
Torniamo però a Roma. Fava partecipa con il suo capo, il procuratore aggiunto Paolo Ielo, agli interrogatori di Amara e si accorge subito che l’avvocato siciliano non dice molto ed è anche reticente chiamando in causa quasi solo magistrati in pensione. Nessun accenno, poi, al prezzo del suo silenzio per coprire i vertici Eni. Fava, indagando su una delle società di Amara, la Napag, che, fondata a Gioia Tauro nel 2012 per l’import/export di succhi di frutta si era data ai prodotti petroliferi, scopre che il fatturato è cresciuto a dismisura in pochissimi anni: dall’iniziale capitale di 10mila euro, ai 107 milioni del 2018. Solo Eni avrebbe versato alla Napag Italia srl e alla Napag Trading Limited 80 milioni di euro. Perché? Mistero.
Amara, oltre a incassare da Eni, in quei giorni decide di spostare la sede legale delle sue aziende a Martina Franca, in provincia di Taranto. Perché? I rapporti con il procuratore Carlo Maria Capristo. Fava aveva ipotizzato subito che era tutta una manovra per evitare l’accusa di bancarotta. Con il trasferimento di sede si bloccherebbe tutto. Il problema è che lo spostamento è finto. La guardia di finanza, mandata da Fava in Puglia, non aveva trovato nulla. Neppure il nome delle società sul citofono. Fava decide quindi di scrivere una mail a Ielo e a Rodolfo Sabelli, l’altro aggiunto. In copia il colonnello Gerardo Mastrodomenico e Fabio Di Bella, gli ufficiali del Gico che l’anno dopo svolgeranno le indagini contro Luca Palamara. Risposta? Nessuna. Anzi, no: alla sua richiesta di arresto di Amara per queste imputazioni, dopo qualche mese, il fascicolo gli verrà tolto.
Fava chiederà chiarimenti al Csm per questa “sottrazione”, evidenziando che il procuratore Giuseppe Pignatone e Ielo avrebbero dovuto astenersi perché i loro rispettivi fratelli, Roberto e Domenico, avrebbero avuto rapporti economici proprio con Amara e con l’Eni. Roberto Pignatone, in particolare, professore associato di diritto tributario all’Università di Palermo, era stato nominato da Amara come consulente fiscale in un procedimento a Siracusa contro Sebastiana Bona, moglie dello stesso Amara, e venne anche inserito nella sua lista testimoniale «affinché riferisca nella qualità di consulente tecnico di parte, sulla relazione tecnica fiscale dallo stesso redatta».
«Quindi nel periodo in cui stanno per iniziare – scriverà Fava – le indagini che coinvolgeranno Amara, questi ha come consulente difensivo il fratello del capo della Procura che chiedeva il suo arresto» e che poi avallerà il patteggiamento. Nel procedimento romano Amara, come scritto nelle scorse settimane dal Riformista, era stato assistito dall’avvocato Salvino Mondello, in stretti rapporti di amicizia proprio con Ielo, la cui astensione sul punto era stata respinta da Pignatone. Risposta del Csm alle osservazioni di Fava? Nessuna.
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Eni precisa: “Mai soldi a Napag”
In merito all’articolo pubblicato dal Riformista con il titolo “Fava capì che bluffava ma Roma salvò Amara”, a firma di Paolo Comi, teniamo a precisare quanto segue. Nell’articolo si fa riferimento a pagamenti effettuati da Eni a favore della società Napag, ricondotta a Piero Amara, e in relazione a questi si fa riferimento a un ipotetico “prezzo del silenzio” di Amara per “coprire i vertici Eni”. In primo luogo, smentiamo categoricamente il coinvolgimento degli attuali vertici della società in qualsiasi operazione commerciale con la società in questione.
Secondo, ricordiamo che Eni ha denunciato alla magistratura per truffa la società Napag, in cui Amara ha significative cointeressenze economiche, frutto anche dell’attività criminale della stessa in danno della stessa Eni. Infine, ribadiamo che Piero Amara è stato citato in giudizio da Eni per il risarcimento dei danni causati dal suo comportamento, ed è stato altresì querelato e denunciato da vari manager della società in relazione a svariate false affermazioni e false dichiarazioni da lui rese in vari procedimenti.
Erika Mandraffino
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