Il flop delle politiche securitarie e populiste
Femminicidi e pestaggi: ecco perché le politiche securitarie hanno fallito
Si avvia a conclusione un’estate terribile, l’ennesima in verità. Efferati femminicidi, risse tra giovani per le strade della movida, povere vittime travolte da automobilisti ubriachi, addirittura senza patente. Si fanno i soliti bilanci, si conta cinicamente il numero delle vittime, si accendono le polemiche, si invocano ulteriori giri di vite. Eppure. Eppure su tutti questi comportamenti e per tutte queste devianze il Parlamento non aveva mancato di intervenire con pugno di ferro. Pene alte, addirittura misure di prevenzione antimafia per lo stalking, aumenti delle sanzioni per il reato di rissa dopo il pestaggio mortale del povero Willy Monteiro. E a seguire i soliti annunci sulla fine della tolleranza, sulla mano dura, sul carcere come rimedio a ogni violazione.
Questa estate mostra con tutta evidenza il fallimento delle politiche securitarie e populiste che hanno governato i processi di penalizzazione negli ultimi anni. In fondo sono proprio questi terribili bilanci, il ripetersi ininterrotto delle morti e dei pestaggi che dovrebbe costituire oggetto di riflessione in una campagna elettorale ormai alle ultime battute e che vede, in qualche misura, recuperare al dibattito – soprattutto grazie a Nordio e alla Rossomando nei due schieramenti principali – la questione giustizia. Questione, sia chiaro, che ha mille rivoli, ma che in mancanza di una precisa idea sulla funzione della pena e sulla sua efficacia deterrente rischia di non condurre ad alcuna soluzione efficace e organica. Il ruolo del pm, la durata ragionevole del processo, la presunzione di innocenza, la deflazione dei dibattimenti con i riti alternativi; tutti e ciascuno di questi temi ruota intorno alla funzione che si intende assegnare al carcere come luogo “privilegiato” in cui espiare le proprie responsabilità.
Se la reclusione carceraria si erge a unica, vera sanzione efficace contro ogni delitto e contro ogni devianza, allora occorre interrogarsi sul perché abbia così miseramente fallito nel contrasto a fenomeni di così grande allarme sociale; il femminicidio e l’omicidio stradale tra tutti. Se la società non si sente protetta da condotte così impattanti e da eventi così diffusi, dovrebbe essere arrivata la stagione di un profondo ripensamento della funzione del carcere e della pena, come Luigi Manconi – in quasi assoluta solitudine – propone da tempo. Si badi bene: è proprio sul carcere e sulla pena che si gioca la stessa caratura garantista del processo e la vera parità delle parti in esso. Un pm o un qualunque organo di accusa che sia in grado di minacciare una lunga detenzione ha un peso che nessuna regola processuale e nessuna garanzia è capace di contenere e mitigare. Negli ordinamenti in cui la pena esemplare assolve a una funzione di deterrenza sociale su larga scala è inevitabile che lo stesso processo sia avvertito come una minaccia da evitare. Negli Usa e in Gb è in corso da decenni la polemica sui troppi patteggiamenti conclusi dall’accusa con imputati che temono le giurie, non hanno denaro per pagare i propri avvocati e, soprattutto, vogliono evitare pene severe quantunque innocenti in troppi casi.
Certo dismettere il nodo scorsoio del carcere e meditare sulla costruzione di sistemi sanzionatori alternativi è un percorso faticoso, urticante, lontano finanche da una sensibilità collettiva che per decenni è stata alimentata da slogan efficaci (“buttare le chiavi”, “farli marcire dietro le sbarre”) e dalla dilatazione, spesso sproporzionata, del ruolo mediatico alle vittime e ai loro congiunti inevitabilmente alla ricerca di una pena che possa contenere il loro dolore e le loro sofferenze. Con tutte le inevitabili frustrazioni ed esasperazioni che si scatenano, poi, quando nelle aule di giustizia si tenta un delicato punto di equilibrio nell’individuazione della pena più conforme al dettato costituzionale. E’ emblematico, in queste settimane di polemica politica, che il pendolo penale oscilli tra la necessità – condivisa da Nordio e dalla Rossomando – di una modifica del reato di abuso d’ufficio e di alcune prescrizioni della legge Severino a carico degli amministratori pubblici e l’idea a esempio di inasprire le pene per i casi di femminicidio e le violenze domestiche. Nel primo caso è addirittura la sola prospettiva del processo a paralizzare l’attività amministrativa e a congelare il governo della cosa pubblica, nel secondo il delirio omicida non si arresta di fronte a qualunque sanzione o pena. Con il clamoroso paradosso che la deterrenza si esercita al massimo grado nei confronti degli amministratori – resi cauti da congegni sanzionatori multilivello previsti per un reato in fondo bagatellare come l’abuso d’ufficio – e invece non esplica alcun effetto per le risse, i femminicidi o gli omicidi stradali che turbano profondamente la pubblica opinione.
Occorrerebbe avere l’onestà intellettuale di riconoscere che solo un più minuto e fine controllo del territorio, una più efficace e capillare polizia di prossimità sono in grado di prevenire, di agire tempestivamente e, quando, occorre di reprimere i prodromi delle violenze e delle devianze. Ma in Italia migliaia e migliaia di appartenenti alle forze di polizia sono assorbiti in un elefantiaco sforzo di aggressione a fenomeni di cui, invero, sono solo declamate e pubblicizzate le manifestazioni, ma che appaiono ampiamente recessivi perché duramente colpiti e repressi. Negli ultimi tre decenni si sono costruite mastodontiche macchine investigative, attuati controlli telefonici su larga scala, implementate misure di prevenzione che erano, verto, indispensabili a colpire fenomeni virulenti e pericolosi. E’ forse il tempo di ragionare sulla appropriatezza di questi apparati rispetto ai fini da conseguire e, soprattutto, ai (modesti spesso) risultati che vengono conseguiti. Evasione fiscale, devastazione ambientale, scorrerie automobilistiche, femminicidi, pestaggi e quant’altro imporrebbero un più razionale e meglio orientato impiego sul territorio delle (scarse) risorse a disposizione, rassicurando i cittadini con le divise per le strade e non con le sbarre di una cella.
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