Stiamo andando incontro a una democrazia rappresentativa più efficiente o stiamo smantellando la democrazia rappresentativa tout-court? Ridurre il numero dei parlamentari renderà migliore il funzionamento delle nostre istituzioni rappresentative? Renderà migliori le persone che vi siedono? Renderà più efficiente il percorso legislativo, restituendo al Parlamento la centralità che la Costituzione gli attribuisce? Sono queste le domande che dovremmo porci, e la risposta è puntualmente no. Non è in assoluto sbagliato ridurre numericamente la rappresentanza parlamentare, e non lo è soprattutto dal punto di vista di chi considera l’esercizio democratico un costo prima di ogni altra cosa. Ma è sbagliato farlo senza integrare questa misura in una rivisitazione complessiva dell’architettura istituzionale voluta dalla nostra Costituzione, che è un delicato ingranaggio di pesi e contrappesi in cui ogni funzione è sentinella delle altre.

Nel 2006, governo Berlusconi, ci avevamo provato, avevamo riformato la Costituzione in senso complessivo e ragionato, riducendo anche il numero degli eletti. Un referendum voluto dalla sinistra bocciò la riforma. Anche questa è democrazia. E per noi una lezione: toccare le regole che tengono insieme quella architettura è e deve essere esercizio difficile. Anche Renzi ci ha provato qualche anno dopo. Anche per lui una lezione.

Oggi lo scontro in campo è fra democrazia liberale e un’idea di democrazia diretta digitale tutta da mettere in pratica. Quest’ultima potrebbe anche essere uno strumento valido, ma diretta da chi e soprattutto verso dove, in tempi di algoritmi che manipolano ogni nostro convincimento? Con questo provvedimento si ottiene un solo risultato certo: il potere rappresentativo del Parlamento viene drasticamente ridotto, al suo interno ci sarà meno popolo rappresentato. La riforma prevede infatti un taglio di deputati da 630 a 400 e di senatori da 315 a 200, mantenendo quelli a vita. Così, l’Italia diventa il Paese dell’Ue con il minor numero di deputati in rapporto alla popolazione: con 0,7 “onorevoli” ogni 100.000 abitanti (dall’uno precedente).

Si generano così squilibri nella rappresentanza territoriale e molto disordine nel funzionamento del sistema democratico. Occorreranno più voti per essere eletti, con conseguenze negative soprattutto per le forze di minoranza che rischiano anche l’esclusione, a vantaggio dei partiti più grandi. Con il sistema elettorale in vigore i seggi proporzionali al Senato sono 199 e quelli maggioritari (i collegi uninominali) 116. Con il taglio diventeranno rispettivamente 126 e 74. Ogni eletto rappresenterà quindi una porzione di territorio più ampia, con conseguente ulteriore diluizione del suo rapporto con gli elettori. Ogni regione perde circa un terzo dei deputati. E Trentino Alto Adige, Friuli, Liguria, Marche, Abruzzo, Calabria, Sardegna, al Senato, non eleggeranno parlamentari di tutte le opposizioni. Così come l’Umbria e la Basilicata, i cui senatori passeranno da 7 a soli 3 eletti. Il risparmio – mantra del grillismo – sarà dello 0,007% del bilancio. Impercettibile in quanto al beneficio per le casse pubbliche. Si risparmia, se è per questo, anche sulla ricerca scientifica e sulla scuola e sugli ospedali, ma non per questo siamo più colti o più sani.

C’è da auspicare che davvero questa volta le forze politiche sappiano trovare nel referendum una opportunità e non un doveristico rituale da portare a compimento. Sarebbe davvero l’occasione per concorrere ad un dibattito nazionale che tocca il centro della nostra democrazia, e quindi il futuro della nostra collettività. Potrebbe aiutare i partiti stessi a farsi qualche domanda in più su temi che non sono instant., che non determinano consenso immediato, ma che sono le prime lettere di un alfabeto politico tutto da reinventare.