Dopo i primi giorni della 80esima Mostra del Cinema di Venezia, i film già visti, in concorso per il Leone d’Oro, confermano il pluralismo dei generi e la propensione dei registi a raccontare epoche del passato con riferimenti alla realtà e alle problematiche del presente. Ma, mentre in alcuni casi emergono tracce stimolanti, in altri risultano concezioni e accenti pretestuosi e deludenti.
In effetti meritano un cenno alcuni film molto attesi, che, purtroppo, non convincono affatto.
Ferrari“, del veterano ottantenne americano Michael Mann, ne tradisce la mitica poetica. Ambientato nel 1957, racconta un periodo drammatico per l’azienda di Enzo Ferrari che rischia un clamoroso fallimento. Ma mostra stilemi televisivivi e una regia caratterizzata dalla pervicace incapacità di costruire un credibile centro drammatico del film. Mann si perde quindi nella descrizione superficiale del disagio di Ferrari che deve gestire le relazioni parallele con due donne e due famiglie.
Finalmente l’alba“, di Saverio Costanzo, ambientato nel 1953, avrebbe l’ambizione di proporre il ritratto della dilagante passione popolare per il cinema e per la fama degli studi di Cinecittà.
Ma, tra imitazione pedissequa del cinema di Federico Fellini e uso del tutto improprio dell’oscura vicenda del delitto di Wilma Montesi, Costanzo precipita in una melassa pittoresca e caricaturale, priva di pathos e piena di contraddizioni e di autocensure.

Il cinema dei grandi autori, da sempre cardine distintivo della Mostra, ha presentato invece due film, che si possono considerare entrambi tra i migliori candidati ai premi principali.
“Dogman” è scritto e diretto da Luc Besson, multiforme e talentuoso autore e produttore del cinema francese. E segna la miglior ripresa della sua carriera quarantennale, dopo la assoluzione definitiva, nell’ultimo grado di giudizio, dalla accusa di stupro nei confronti di una attrice francese, che lo aveva perseguitato dal 2018, sabotando il suo lavoro. “Dogman”, in uscita nei cinema il 5 ottobre, propone una storia di dolore, raccontata con accenti malinconici e amaramente ironici, molto incisivi ed efficaci. Doug, già vittima di tremende sevizie da parte di un truce padre padrone, che lo ha rinchiuso per anni nella gabbia dei cani che seleziona per i combattimenti illegali, è costretto su una sedia a rotelle. All’età di 11 anni è rimasto paralizzato alle gambe, dopo che il genitore gli ha sparato e una pallottola gli ha lesionato gravemente la spina dorsale. Solo e bullizzato mentre vaga da una casa di accoglienza all’altra, diventa il beniamino di Salma, una insegnante di sostegno che lo introduce al teatro.
Ma, deluso dalla donna, di cui si era invaghito, incontra molti altri che gli infliggono continue umiliazioni, essendo considerato una specie di freak. Viene invece accolto con calore da una comunità di drag queen con cui, mostrando straordinari travestimenti e grande talento, si esibisce con successo in un piccolo teatro queer. Vive barricato in un edificio abbandonato, attrezzato con trappole contro gli intrusi, insieme a una muta di fedelissimi cani randagi di ogni razza che lo proteggono, con sorprendenti performance, da attacchi di bruti e violenti. Arrestato, dopo che è riuscito a sgominare una banda di spacciatori portoricani, in cella sviluppa un’empatia con Evelyn, la psichiatra forense afroamericana a cui è affidato. E le racconta la sua storia. A partire da una sceneggiatura eccellente, mai didascalica, che caratterizza al meglio questo indimenticabile antieroe e il contesto, il film mostra due punti di forza. La messa in scena che configura una geniale cornice grand guignol, ricordando atmosfere già viste in “Joker”(2019), di Todd Phillips e referenze ad altri film di genere thriller. E che introduce un quadro di genuino melodramma e di toccante realismo, descrivendo la lotta per sopravvivere di un emarginato che trova empatia con i suoi cani, mentre è continuamente deluso e ferito dagli uomini. E, soprattutto, l’ottima interpretazione dell’attore americano trentenne Caleb Landry Jones, capace di esprimere pienamente la sofferenza, l’umanità e la tristezza di Doug, senza mai recitare sopra le righe.

“The Killer”, del famoso regista americano sessantenne David Fincher, autore di film memorabili come “Alien” (1992), Seven (1995), Fight Club (1999), The Social Network (2010), Gone Girl (2014) e il capolavoro Mank (2020), è un cinvincente vengeance thriller, teso e mirabile.
Da un lato delinea, con essenzialità, la dimensione psicologica del killer, mentre dall’altro sviluppa perfettamente tempi e modalità della action, all’interno di un itinerario di difficile rivalsa, che è anche una lotta spietata per la propria sopravvivenza.
Basato sulla omonima graphic novel di Alexis “Matz” Nolent, illustrata da Luc Jacamon, uscirà nei cinema in ottobre e in streaming su Netfkix dal 10 novembre.
Suddiviso in 6 capitoli e accompagnato dalla voice over del protagonista che ne esprime pensieri e ragionamenti interiori, racconta l’improvvisa svolta drammatica nella vita di un assassino quarantenne a pagamento. Un professionista con esperienza pluriennale e quasi 1000 omicidi alle spalle, senza aver subito alcuno scacco. Un uomo solitario, freddo, meticoloso, perfezionista e attento a non derogare mai da regole autoimposte. Un codice comportamentale per evitare sempre sentimenti di empatia o di debolezze e utile per affrontare qualsiasi imprevisto. Dopo l’inaspettato insuccesso di una esecuzione a Parigi, e una fuga mozzafiato, rientra nell’isola caraibica di Santo Domingo dove vi è il suo rifugio.
Ma nella bella villa isolata e nascosta dalla vegetazione vi è stata l’irruzione di due killer, un uomo e una donna, e la giovane dominicana che vive con lui è rimasta gravemente ferita.
Il protagonista capisce che il cliente che aveva commissionato l’omicidio fallito di Parigi, vuole eliminarlo. Quindi, attraverso un itinerario che lo porta negli USA, da New Orleans alla Florida, a New York e a Chicago, ingaggia una caccia inesorabile per vendicarsi e per garantire un futuro di incolumità a sé stesso e alla sua donna.
Fincher confeziona un’opera ricca di atmosfere, in gran parte notturne, grazie a una regia molto calibrata e articolata, coadiuvato dalla suggestiva fotografia di Erik Messerschmidt e da uno straordinario lavoro sul suono, curato da Ren Klyce.
Protagonista assoluto è Michael Fassbender, perfettamente diretto e assolutamente in parte. Nel cast spiccano anche Tilda Swinton, Arliss Howard e Charles Parnell.

Alcune note inoltre su “Bastarden (The Promised Land)”, del danese Nikolaj Arcel. Si tratta di un period film, ambientato nel 1755 nel selvaggio Jutland. Giovandosi di una scrittura e di una solida regia, che evitano i facili stereotipi melodrammatici, propone un’emozionante avventura dal sapore “western”, ricca di aspetti etnografici e di colpi di scena. L’ex capitano Kahlen, figlio illegittimo di un nobile, e interpretato dall’eccellenza Mads Mikkelsen, ha come unica risorsa una modesta pensione militare. Ma, con lucida caparbietà, cerca di colonizzare una parte della brughiera, una terra considerata improduttiva. Tuttavua ben presto si trova a dover fronteggiare l’arroganza e la violenza, di stampo medioevale, di uno spietato latifondista che vuole schiacciarlo, accampando diritti fasulli. Un itinerario di riscatto sociale paragonabile a quello del protagonista di “Barry Lyndon” (1975), di Stanley Kubrick, ma con esiti opposti.

Infine citiamo un film della sezione competitiva “Orizzonti” che sembra già un forte candidato ai premi. “Yurt (Dormitory)“, opera prima scritta e diretta dal trentenne turco Nehir Tuna, con ispirazione autobiografica, è un piccolo capolavoro in termini di sceneggiatura e di messa un scena. Ambientato nel 1996, in un’epoca di forte scontro in Turchia tra laici nazionalisti e musulmani ortodossi, racconta la dolorosa e struggente storia di formazione del quattordicenne Ahmet. Il ragazzo, figlio di un imprenditore che è anche un fedele adepto e benefattore di una congregazione musulmana, è obbligato a soggiornare in una residenza dormitorio gestita dalla stessa organizzazione, mentre frequenta una scuola pubblica di prestigio. Un intreccio in cui l’ostinato anelito alla libertà di pensiero del giovane e alla difesa della propria anima, sensibile e vivace, si scontrano con l’autoritarismo paterno e con il soffocante regime di obblighi e di indottrinamento impartiti nella residenza.

Giovanni Ottone

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