Festival di Venezia tra covid, Ucraina e migranti: il Leone sul mondo che scotta

Abbandonando quasi tutti i protocolli Covid degli anni passati, la Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, apre la sua 79esima edizione, all’insegna della normalità, abbattendo il muro che per due anni ha diviso il pubblico dalle star sul red carpet. Con un’immagine ufficiale che raffigura una leonessa che si libra in alto, a rappresentare i 90 anni dalla prima edizione della Mostra, Venezia 79 diretta da Alberto Barbera, inizia proprio dalle donne e dunque dalla madrina, Rocío Muñoz Morales che raccoglie il testimone da Serena Rossi lo scorso anno, a benedire la manifestazione e presentarne le serate di apertura e chiusura.

La prima giornata ha visto innanzitutto protagonista la divina Catherine Deneuve, alla Mostra per ricevere il meritatissimo Leone d’Oro alla Carriera. Si è concessa solo per foto e conferenza stampa ma il suo passaggio si è fatto sentire, artisticamente e politicamente. L’attrice si è infatti presentata all’incontro con la stampa, indossando una camicia viola su cui si posava una piccola bandiera dell’Ucraina. «Sono molto consapevole di ciò che succede nel mondo e per questo ho voluto indossare la bandiera dell’Ucraina. Ogni giorno mi auguro in cuor mio che la guerra finisca, che le cose si risolvano. Sono orgogliosa di questa bandiera, sono solidale con il popolo ucraino», ci tiene a dichiarare. Rifiuta il divismo Catherine Deneuve e alla solita vecchia domanda su cosa consiglierebbe a chi vuole intraprendere la carriera di attrice risponde: «Non do mai consigli se non quelli che valgono anche per la vita: essere se stessi». Non è meno schietta e diretta la Presidente della Giuria internazionale, l’attrice premio Oscar Julianne Moore che in conferenza ha risposto con sicurezza ad ogni tipo di domanda sul lavoro che andrà a fare nei prossimi dieci giorni con i compagni giurati tra cui ci sono anche l’italiano Leonardo Di Costanzo, il Leone D’Oro dell’anno scorso Audrey Diwan e l’attrice iraniana Leila Hatami.

Sulle responsabilità del presiedere una giuria afferma: «Sono onorata di essere a Venezia, lo considero un privilegio. Mai in vita mia avrei pensato di far parte di una giuria internazionale e addirittura di essere presidente». «Quando sono venuta a Venezia per la prima volta era il 1986: se allora mi avessero detto che un giorno sarei stata in giuria, mi sarei buttata in un canale per la gioia. Oggi ha ricevuto un onore davvero grande». Interrogata sullo stato di salute del cinema, l’attrice non esita: «Sento parlare così spesso del futuro del cinema e dell’industria. Oggi la preoccupazione principale sono i soldi, ma per me è importante il processo creativo e come permettere agli autori di continuare a creare. Il progresso cambia costantemente il panorama, ma l’arte non cambia. Le persone continueranno sempre a raccontare le storie». 23 film aspettano il giudizio di Moore e colleghi, ma che caratteristiche dovrà possedere il vincitore di quest’anno?

«Cerco la novità – chiarisce – non so cosa aspettarmi da molti dei film in concorso e non so cosa vedrò. Tutto ciò è elettrizzante. Vedere film in lingua originale mi permette di conoscere usi, costumi, abitudini diverse dalle mie. Ci permette di sentirci tutti umani, uniti. Inaugura il concorso giudicato da Julianne Moore, Noah Baumbach, che qui aveva presentato con successo Storia di un Matrimonio, film che si è poi guadagnato un Oscar a Laura Dern per la miglior attrice non protagonista. Con un film tratto dal romanzo di Don De Lillo del 1985, White Noise, il regista, prodotto e distribuito dal gigante dello streaming Netflix, riporta Adam Driver al lido come suo protagonista e gli affianca Greta Gerwig, sua attrice musa, compagna sceneggiatrice e di vita, nonché ormai lanciatissima regista. È per lei che ci concediamo una piccola digressione per ricordare che ha appena finito di girare un film attesissimo, quello sulla bambola più famosa al mondo, Barbie, interpretata da Margot Robbie con Ryan Gosling nei panni di Ken.

Post apocalittico, sempre attuale e un mix di generi, dal racconto familiare a quello di coppia fi no al tema portante, la paura della morte che attanaglia tutti, White Noise, su Netflix dal 30 dicembre, divide la critica in due, tra adoranti e sprezzanti. Siamo in piena America anni 80 ad analizzare il fulcro della sua società, la famiglia, definita anche nel fi lm come la culla della disinformazione. A capo uno stranissimo ma amatissimo professore esperto di Hitler e sua moglie, insegnante di posturale, entrambi al quarto matrimonio con quattro figli a carico. Strutturato in tre parti di cui la centrale su un disastro ecologico che porta tutti ad indossare mascherine e temere la morte, il film come il libro parla all’oggi più che mai, soprattutto nella sua rappresentazione del dopo lo scampato pericolo. «Penso che il film parli di come costruiamo rituali e strategie per tenere fuori il pericolo, ma a volte la morte viene verso di noi. Guardiamo verso gli altri per capire se c’è o meno pericolo e come dovremmo reagire.  Non sappiamo come farlo poiché siamo abituati a vedere tutto in TV. La terza parte descrive il ritorno a queste strategie, ma oramai si è visto qualcosa di nuovo e si reagisce a quella nuova informazione».

Proprio sull’attualità e il Covid aggiunge Baumbach: «Il linguaggio del libro mi è sembrato familiare. Mentre lo rileggevo durante la pandemia ho pensato a quanto fosse rilevante per questo momento». Non solo film nel concorso principale a Venezia ma il giorno 1 segna anche l’apertura della sezione Orizzonti, dedicata a scoprire cosa c’è di nuovo nel cinema nazionale e internazionale. Ad aprire le danze, tocca quest’anno ad un italiano, Roberto De Paolis, con la sua opera seconda, Princess, storia di una giovane diciannovenne clandestina nigeriana, in Italia costretta a prostituirsi.

Il regista che aveva esordito con Cuori Puri al Festival di Cannes nel 2017, dà vita ad un racconto di formazione che riesce a mostrare il percorso di maturazione e crescita di una ragazza con la crudezza e la poesia di un tono fiabesco che guarda agli immigrati, in questo caso, con un punto di vista diverso, tra fiction e realtà: «Gli immigrati sono spesso ritratti come delle persone buone, tipo dei bambini innocenti. Forse è un modo di lavarsi la coscienza perché a livello politico vengono trattati malissimo. Io volevo che questo personaggio venisse fuori a 360 gradi, con la sua bellezza e la sua rabbia, con il suo coraggio e la sua paura. Gli immigrati sono persone reali, con problemi e fratture a volte molto più gravi delle nostre, è bene prenderne coscienza».