Il caso
Feti sepolti senza consenso, interviene il garante della privacy: aperta istruttoria
«Questa non è la mia tomba». Eppure lì su quella croce nel campo 108 del cimitero Flaminio (a Roma) una donna trova il suo nome, accanto a centinaia di altri. Lei, come molte altre donne, hanno affrontato un’interruzione di gravidanza, ma pur non avendo richiesto la sepoltura del feto scopre, a distanza di tempo che senza nessun consenso e in barba a ogni regola sulla privacy, qualcuno lo ha fatto per lei. «È un’azione punitiva, è come dire: lo seppellisco io per te. Trovare il mio nome su quella croce sembra voler dire: ecco tu hai abortito, ora tutti lo sanno» racconta la ragazza.
Si allunga la lista delle donne che, leggendo quel primo post coraggioso di una donna su Facebook, hanno deciso di verificare di persona se in quel campo ci fosse anche il proprio nome. L’eco della vicenda ha messo in moto anche le istituzioni, ieri sono state presentate due interrogazioni: una alla Regione Lazio e l’altra al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, su iniziativa della deputata di Liberi e Eguali Rossella Muroni e della consigliera regionale Marta Bonafoni. Entrambi gli atti hanno trovato l’approvazione di molti parlamentari fra cui l’ex presidente della Camera Laura Boldrini. Il Garante per la protezione dei dati personali ha inoltre deciso di aprire un’istruttoria, definendo la vicenda «dolorosissima». In questo caso è doverosa una riflessione anche sulla scelta del simbolo religioso, nessuna delle donne che poi si è ritrovata le generalità pubbliche aveva specificato orientamento religioso. Altra violazione.
Immediatamente è iniziato il ping-pong delle responsabilità. Dapprima l’Ama, municipalizzata che gestisce i lavori cimiteriali, che ha respinto ogni responsabilità: «La sepoltura del feto è stata effettuata su specifico input dell’ospedale» e poi la risposta della struttura dove sono stati praticati gli aborti, il San Camillo di Roma: «La gestione e seppellimento sono di completa ed esclusiva competenza di Ama dunque la violazione della privacy è avvenuta all’interno del cimitero». Il Regolamento di polizia mortuaria del 1990, che fa addirittura capo al regio decreto del 9 luglio 1939, distingue tra tre casi possibili in caso di aborto: i bimbi nati morti (superate le 28 settimane) vengono sempre sepolti; i feti con una presunta età di gestazione tra le 20 e le 28 settimane cui spetta l’interramento in campo comune con permessi rilasciati dall’unità sanitaria locale, e i “prodotti del concepimento”, cioè di una presunta età inferiore alle 20 settimane, considerati rifiuti speciali ospedalieri, quindi non destinati alla sepoltura, ma alla termodistruzione. Sulla vicenda è intervenuto anche Massimo Gandolfini, leader del Family Day, che ha commentato: «La legge prevede che ogni Regione possa stabilire se concedere alla donna che abortisce libertà di scelta sulla sepoltura del feto. Io credo che sia sbagliato. Il feto va sepolto sempre – precisando però che – scrivere invece il nome e cognome della madre sulla tomba è una procedura sbagliata e sciocca».
Dopo la forte attenzione mediatica riservata alla vicenda, adesso qualcosa sembra muoversi. I Radicali promettono battaglia e l’Associazione Differenza Donna, da sempre dalla parte delle donne e contro la violenza, promette una class action. «Il prossimo passo sarà un’azione collettiva, tutte le donne che hanno subito questa grave violazione istituzionale devono esserne al corrente. Ci stiamo muovendo, non ci fermeremo» dice la Presidente dell’associazione Elisa Ercoli. Dopo lo sdegno, la ricerca della verità e la volontà di individuare le responsabilità per far luce su quello che sembra un “meccanismo” collaudato dove a pagare le conseguenze però sono sempre e solo le donne, stigmatizzate, ancora una volta, per le loro scelte.
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