Fin dalle origini la filosofia è un modo di vita

La filosofia nasce pop. I primi filosofi erano, in realtà, sophoi, e cioè sapienti, e tali erano considerati dai loro contemporanei e concittadini non già perché coltivassero lo studio di una disciplina particolare, distinta dalle indagini “naturalistiche”, ma perché vivevano nella loro comunità come soggetti impegnati a far prevalere la riflessione razionale, rispetto all’ignoranza, alla superstizione o all’idolatria. Da questo punto di vista, non soltanto la filosofia delle origini non ha nulla a che fare con l’immagine di un sapere astratto, rigorosamente regionalizzato, coltivato da santoni avulsi dal contesto sociale – come tanta manualistica si ostina a voler accreditare – ma coincide piuttosto con un modo di essere presenti nella società di riferimento come coscienza critica, intenta a scandagliare i diversi aspetti della realtà fisica e sociale.
Anassimandro e Eraclito, Parmenide e Anassagora sono certamente physiologoi (come li definisce Aristotele), ma non perché limitino programmaticamente la loro indagine alla natura in senso fisico, bensì perché si interrogano sulla totalità di ciò che si presenta davanti a noi, e che i pensatori arcaici chiamavano appunto physis. Ancora più decisiva la precisazione relativa alla polis. Le vicende esistenziali dei primi filosofi – si pensi a Talete e Pitagora, ad Eraclito ed Empedocle – e più ancora il loro stesso pensiero, restano incomprensibili se sganciate dal modo in cui essi hanno agito nella polis. Poli-tica, per quei sophoi, non è un campo di attività tecnicamente definito, distinto e autonomo, rispetto ad una presunta vita civile pre- o a-politica. Intensivamente politico – perché sempre riferito al contesto della polis – è quel modo di vita, quell’attitudine concreta, secondo la quale il saggio non può che rapportarsi, magari anche in maniera virulentemente polemica, con coloro che assieme a lui formano quella comunità organica che è la polis. Da tutto ciò scaturisce che l’impiego dell’espressione “filosofia presocratica”, per alludere al pensiero dei personaggi che cronologicamente precedono Platone, è sbagliata e gravemente fuorviante non solo nell’aggettivo, ma anche e forse ancor di più nel sostantivo. Già nel saggio sulla “parola di Anassimandro”, compreso negli Holzwege, Heidegger aveva notato che il termine “presocratico” impiegato da Hermann Diels (o l’analogo “preplatonico”, coniato da Nietzsche), doveva essere considerato abusivo, dal punto di vista filologico e storiografico, poiché riconduceva impropriamente a Socrate (o a Platone) una ricerca intellettuale che si sviluppa lungo circa due secoli, ovviamente di per sé del tutto ignara di quanto verrà poi affermato da Socrate o da Platone. Ma ancor più deformante è l’uso di un termine – philosophia – che viene utilizzato per la prima volta nella sua accezione “tecnica”, vale a dire nel modo col quale esso ricorre nella tradizione culturale occidentale da Platone e fino ai giorni nostri, soltanto nei Dialoghi platonici.
Cosa ci “dice” questa sommaria ricognzione per quanto riguarda il significato della “pop-sophia”? Molto schematicamente, si possono fissare due punti salienti. Anzitutto, risulta evidente che, nella sua forma aurorale, nei testi dei pensatori arcaici la filosofia nasce e si diffonde non come una forma di sapere tecnicizzato, ma come un modo di vita, e più specificamente come un modo di stare nella polis, e come una forma di interrogazione di quel “tutto” che si esprime col termine physis. Essa nasce, dunque, davvero come filosofia popolare, non già perché si distingua e si contrapponga rispetto ad un sapere “alto” o più sofisticato, ma perché essa si sviluppa nella relazione vitale con i problemi presenti in una comunità. Il secondo aspetto che merita di essere sottolineato riguarda la seconda fase del processo storico a cui ci stiamo riferendo, quello nel quale la filosofia in senso specifico assume la sua peculiare configurazione. Al di là delle molte “definizioni” offerte nei Dialoghi, è possibile rilevare che, in particolare in Platone, pur assumendo uno statuto in qualche modo “tecnicizzato”, la filosofia conserva almeno una fra le caratteristiche fondamentali dell’indagine arcaica. Essa si genera, infatti, e si alimenta di ciò che l’Ateniese chiamava il thauma, vale a dire quella sorta di mysterium tremendum et fascinans, quella condizione emotivo/affettiva in cui lo stupore si congiunge al timore, che resta all’origine del filosofare.