Borghi putridi. Collegi elettorali con pochissimi o addirittura senza abitanti, così chiamati perché abbandonati «da Dio e dagli uomini». Ma non scordati dai partiti che nella Gran Bretagna del XIX secolo continuavano a garantire il diritto alla rappresentanza parlamentare a contesti ormai privi del peso sociale, economico e demografico di centri abitati rilevanti solo in passato. Ne traevano vantaggio alcuni attori politici potenti localmente, replicando la struttura sociale e politica e perciò assicurandosi seggi e poteri.

La partecipazione politica e quella elettorale erano limitate per genere (solo gli uomini) e/o per censo. Anche in Italia del resto i partiti erano composti da notabili, esponenti di primo piano del contesto locale (farmacista, notaio, avvocato, latifondista, signorotto…) e non avevano un’organizzazione stabile, ma si dotavano di un’embrionale macchina elettorale soltanto con l’approssimarsi del voto. Finché non irruppero sulla scena le vituperate masse che per fronteggiare l’esclusione sociale altro non potevano fare che unirsi (“proletari di tutti Paesi, unitevi!”) e provare a contrastare la predominanza dei padroni, dei ricchi, dei benestanti.

Che dei partiti proprio non avevano bisogno ché godevano già di ingenti risorse finanziarie personali o dei propri pari ceto. Attraverso un processo lungo, faticoso, conflittuale e segnato da varie tappe e sconfitte, il movimento operaio si unì nei sindacati (le Unions in Gran Bretagna), e mise in comune la sua più grande forza: il numero e il lavoro volontario (il cui lavoro è oggi appaltato a professionisti). I partiti di massa (socialisti in primis e poi comunisti) erano tali perché potevano contare su un’ingente rappresentanza di iscritti i quali contribuivano economicamente al benessere del partito attraverso il tesseramento. Per far fronte alla sperequazione di risorse con il partito di notabili i partiti novecenteschi puntavano sull’aggregazione di piccole quote, per evitare che la politica fosse appannaggio di pochi, delle élites.  Il tema della sovvenzione economica alla/della politica è pertanto longevo e richiama la celebre distinzione di Max Weber tra “vivere di politica” e “vivere per la politica”. In Europa il finanziamento pubblico dei partiti politici è previsto in tutti i paesi tranne che in Svizzera, Malta (dove pare però che il tema stia entrando in agenda), Bielorussia (!) e Italia. La legge 13/2014, effettiva dal 2017, ha abolito il sostegno pubblico diretto dell’erario alla politica.

Nel 1974 la cosiddetta legge Piccoli (Dc) era andata in direzione contraria a quella attuale proprio per contrastare i flussi di danaro da ambienti privati e veicolati per scambi a volte illeciti, spesso moralmente discutibili. Lo scandalo “Petroli” (finanziamenti ai partiti via Eni) e il precedente del senatore Trabucchi (sostegno ad aziende del tabacco) furono il detonatore per mettere regole al flusso di danari nella convinzione che i bilanci pubblici potessero limitare la voracità partitica e soprattutto garantire processi virtuosi e trasparenti, residuando la parte fisiologica della corruzione. La storia riporta un processo esattamente contrario, con movimento di fondi utilizzati per la lotta politica, in un’accezione ampia e capace di includere anche appropriazioni illecite. E comunque il finanziamento non fermò il ricorso a fondi esterni, legittimi e non. Nel 1978 il referendum promosso dai Radicali per abolire la legge del 1974 raggiunse il 44%.

Il seme era lanciato. Fu però l’onda del referendum del 1993 che spazzò via il “finanziamento pubblico dei partiti”, insieme al voto con le preferenze e a un trittico di ministeri ritenuti colpevoli per natura di annidare corruzione. La clava antipolitica e populista emetteva i primi vagiti in passato sopiti dalla forza dei due partiti/chiesa, Dc e Pci. I quali, insieme a socialisti e laici, ricevevano regolarmente finanziamenti interni e soprattutto esterni, dagli Usa (via Cia) e dall’Urss (via Kgb). I partiti occupavano interi gangli del processo politico, ma anche sociale, culturale ed economico. Enrico Berlinguer sollevò nel 1981 il tema della questione morale, ossia della corruzione tra e nei partiti, ma anche quello della partitocrazia, la presenza invasiva e pervasiva delle organizzazioni politiche (dalla produzione del panettone Motta, ai pomodori Cirio, dalla gestione degli autogrill al governo della sanità, le banche, la Rai). Quasi come oggi, in effetti. Nel tritacarne giudiziario e politico di Tangentopoli finirono i “mariuoli”, i ladri matricolati, i funzionari corrotti, i finanziatori corruttori, i faccendieri, molti innocenti, ma soprattutto l’intero sistema politico. O meglio l’idea stessa di politica. Ormai sinonimo di corruzione per sé.

Il legislatore, longa manus dei partiti, reintrodusse il finanziamento della politica attraverso i rimborsi, ad appena sei mesi del referendum abrogativo del 1993. Non si trattava di una gabbata, ma della ovvia constatazione che bisognasse far fronte ai costi, non essendo tutti “ricchi di famiglia”, come dimostrava l’arrivo sul proscenio di Silvio Berlusconi con i suoi capitali. E l’Italia era anomala avendo abbandonato un sistema che la maggior parte dei paesi europei aveva adottato con forme di finanziamento pubblico alla politica dagli anni 70 (tranne la Germania che lo fece già da fine anni 50). Dal 1994 e fino al 2013 le forze politiche hanno ricevuto rimborso per spese elettorali, ovvero una serie di leggi ha incrementato il finanziamento pubblico da circa 80 milioni complessivi fino al picco di 550 milioni nel 2008.

L’abolizione del finanziamento pubblico è stata una resa culturale al populismo, alla furia anti-democratica, alla propaganda ossessiva contro le istituzioni che ha lavorato come un maglio. Dal 2014 il finanziamento della politica è sostanzialmente di tipo privato (con l’unica eccezione del 2 x 1000, scelta operata dal 3% dei contribuenti), con un limite di 100mila euro per le donazioni private, il divieto per le compagnie a partecipazione pubblica e le Fondazioni politiche sono equiparate a partiti per trasparenza e rendicontazione (legge “Anticorruzione” del 2018). Il finanziamento pubblico ha ricoperto circa il 70% delle entrate dei partiti italiani fino al 2012, mentre oggi quel che resta del pubblico (2 x 1000) pesa per quasi un terzo dei bilanci dei partiti. Senza una riforma in senso pubblico chiunque volesse finanziare un partito si avventurerebbe in rischiose operazioni burocratiche passibili di indagini, di occhiute attenzioni moralistiche e pregiudizi. La politica è il male, dunque chi la finanzia è il criminogeno oggetto finale dell’assioma.

Il modello prevalente di finanziamento pubblico prevede la copertura delle spese elettorali sostenute dai partiti e (come in Spagna) contributi per l’attività ordinaria. La ripartizione avviene in base ai risultati elettorali (voti) e/o alla numerosità parlamentare. Esistono varie alternative: tra il modello laissez-faire della Gran Bretagna dove il finanziamento pubblico copre (quando all’opposizione) il 20% delle entrate; il modello francese di finanziamento pubblico a partiti e candidati che copre circa il 50% delle entrate e il sistema matching funds della Germania che combina un contributo proporzionale ai voti ricevuti e uno calcolato sulla quota di autofinanziamento (piccole donazioni e quote associative) al fine di disincentivare l’autoreferenzialità dei partiti spingendoli a stare “tra i cittadini” (il finanziamento pubblico copre in media il 35% delle entrate dei partiti).

Come è evidente, lo sterco del diavolo è un attore politico. E l’Italia deve capirlo oppure mettere la testa nella sabbia e rimanere nel club guidato dalla Bielorussia. Senza risorse economiche non esistono partiti e quindi non esiste democrazia. Ma solo oligarchia o plutocrazia. Un sistema esposto al monopolio delle risorse economiche oramai evidentemente da considerare quarto lato rispetto alla tripartizione dei poteri offerta da Montesquieu. Il finanziamento pubblico ha indubbi vantaggi: economici, per evitare la fictio del finanziamento esterno (o estero come nel caso del Pci e della Dc); sistemici, per allentare la pressione sul mondo produttivo ché i partiti cercano per sopperire alla crisi di risorse, e che viceversa premono per ottenere trattamenti differenziati; legali, per evitare che si intasino i corridoi delle procure anche per risibili procedure.

La politica oggi esclude le masse, perché costa, in senso lato, in termini di tempo, energie, ma soprattutto di risorse economiche. Coloro che possono affrontare una campagna elettorale – magari in collegi pluri/regionali – sono prevalentemente auto-muniti in termini di fondi, ovvero li cercano “altrove”. Perché, sì sveliamo l’ipocrisia, sfatiamo un mito, la politica, o meglio la democrazia, costa e qualcuno deve finanziarla. Ergo, o lo fa lo Stato, con criteri stringenti, trasparenti, periodica rendicontazione, e tetti massimi di spesa pubblica, oppure lo faranno quelli abili a individuare canali di approvvigionamento per influenzare, condizionare, incidere sulle decisioni. Il populismo, senza partiti solidi, sarà longevo e pasciuto ché i cittadini esclusi alimenteranno la loro rabbia verso un “club” che non li vuole e non li vede. E penseranno alla Democrazia in forma di “sprechi”. Senza finanziamenti pubblici la politica diventa davvero una questione di élite, riservata a pochi (riduzione del numero di parlamentari) e soprattutto ad alcune classi sociali e professionali (L. Verzichelli, Vivere di politica, Il Mulino). Si pensi alla scomparsa degli operai in Parlamento. E invece, «Contessa, anche l’operaio vuole il figlio… politico».