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La scelta
Fine vita, spiraglio dalla Corte Costituzionale sulla sospensione delle cure. L’inerzia del legislatore è ancora un problema
Con la sentenza n. 135 del 18 luglio 2024, la Corte costituzionale, vista la “perdurante assenza di una legge che regoli la materia”, ha deciso di compiere un significativo passo in avanti nell’affermazione del diritto a un libero fine vita quando le circostanze della sopravvivenza siano tali da rendere i trattamenti medici fonte di inutili sofferenze. Già nel 2019 la Corte, con la sentenza 242, aveva fissato quattro condizioni per accedere al suicidio assistito: l’irreversibilità della patologia, la presenza di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, la totale dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, la capacità di prendere decisioni libere e consapevoli.
Con la pronuncia più recente, vengono precisate ulteriormente le circostanze che possono invece rischiare di trasformare la terapia medica in un atto che impone a chi muore un modo di concepire il fine vita che si rivela coercitivo e paternalistico – oltre che, a volte, crudele. In un passaggio della sentenza si fa infatti riferimento al diritto fondamentale del paziente di “rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività”. Si tratta di un principio di estrema importanza, perché fa implicitamente riferimento a un individuo che non è soltanto un soggetto di vita biologica, una incarnazione passiva della vita umana, ma è – o è stato – un soggetto capace di compiere scelte responsabili in merito alla propria esistenza. Come ha osservato James Rachel, “essere vivi” e “avere una vita” non sono la stessa cosa.
Certo, la Corte non si pronuncia direttamente sulla cosiddetta eutanasia attiva volontaria, cioè sull’atto con cui qualcuno provoca intenzionalmente la morte di un’altra persona che, vivendo ogni giorno nella monotona sopportazione dell’insopportabile, chieda al personale sanitario di essere aiutata a morire. Nella sentenza in questione si stabilisce il diritto del paziente di chiedere al medico la sospensione delle cure che lo tengono artificialmente in vita, quando quindi volere la morte rappresenta la sola testimonianza possibile in grado di dare valore e significato alla vita individuale, intesa come costruzione consapevole di sé. Il diritto a morire si configura come un diritto negativo a non essere sottoposti a cure o interventi medici in uno stadio terminale che prolungano la vita di un individuo contro la sua volontà e che provocano sofferenze inutili. Nel testo si fa infatti anche riferimento all’inerzia del legislatore e alla perdurante resistenza di una cultura conservatrice nel riconoscere l’esistenza di una sfera personale individuale rispetto al proprio corpo e al corso della propria vita, decidendo così di fatto sull’entità delle sofferenze che un cittadino deve patire, contro la sua volontà, nel passaggio verso la morte.
Nelle discussioni in questo campo si assiste da tempo a una contrapposizione radicale: quella tra chi ritiene che la vita umana non sia disponibile e chi invece ritiene che le persone ne possano disporre. Ovvero tra chi pensa che la vita umana in generale sia un valore legato all’interesse della società a conservarsi o, per i credenti, sia nella sola disponibilità di Dio, e chi invece ritiene che ciascuno sia padrone della propria vita e perciò legittimato a porvi fine in determinate circostanze – come quelle, appunto, indicate dalla Corte. Circostanze che alludono – almeno in parte, dal momento che la volontà del paziente si configura, come si è accennato, a un diritto negativo – a una posizione in materia che non può essere definita altrimenti che come laica e liberale. Non spetta allo Stato, cioè, imporre una concezione della vita connotata in senso etico, né il diritto può essere uno strumento per fare in modo che una morale prevalga su un’altra. Il principio del rispetto assoluto della vita, dal quale nessun credente può esimersi, sfocia nell’intolleranza quando si impone quale norma giuridica coattiva e impedisce alla coscienza laica di realizzare la propria morale.
Ciò significa che lo Stato non ha il compito di parteggiare per una parte o per l’altra delle convinzioni esistenzialmente rilevanti per i suoi cittadini, poiché deve soggiacere all’obbligo della neutralità rispetto alle visioni del mondo. I cittadini devono cioè aspettarsi un esercizio ideologicamente neutrale del potere, così da godere della possibilità di determinare in modo autonomo le proprie scelte. Chi sostiene la libertà di decidere in materia di fine vita non impone alcunché a nessuno. Si limita a pensare che ciascuno debba avere l’ultima parola quando si tratta di interventi medici che servono soltanto a prolungare l’agonia. È evidente che, sul piano etico, la contrapposizione tra la sacralità della vita nel suo senso tradizionale, che finisce per farla coincidere con la vita biologica, e la sacralità della vita individuale, che dipende dal modo in cui ciascuno di noi le conferisce senso e significato, non è destinata a estinguersi. Ma è per questo che occorre spostare la questione sul piano politico, e prendere atto che il pluralismo è la concezione alla base della società democratica e che ciascuno può godere di un’autentica libertà di decisione ai fini delle sue scelte soltanto se dispone di un ventaglio sufficientemente ampio di orientamenti valoriali, stando ai quali può vivere la propria vita e, eventualmente, decidere per la propria morte.
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