Nel dare la notizia in anteprima, il giornale tedesco Die Welt definisce Raffaele Fitto “un populista di destra”. Forse in Germania il recente trionfo dei neonazisti di Höcke confonde le idee. Nel suo quarto di secolo di vita politica, Fitto è stato semmai accusato del contrario: doroteo, nonostante venga dalla Maglie di Aldo Moro, super-moderato, persino tecnocratico. Certo non un estremista. Se sbarcherà in Europa come vicepresidente esecutivo con delega a Economia e Pnrr, farà valere un profilo centrato sulle competenze gestionali. Un po’ come Paolo Gentiloni 5 anni fa, ma con un ruolo ancora più forte.
Tuttavia, la notizia del giorno non è questa. La nomina di Fitto a una posizione così centrale non solo riconosce all’Italia un notevole peso politico, ma soprattutto allontana – in modo forse definitivo – la destra al governo da altre esperienze ai margini della democrazia e delle alleanze occidentali. Si può persino ipotizzare che il non-voto di Fratelli d’Italia alla presidente Ursula von der Leyen fosse in qualche modo pilotato. Giorgia Meloni si è tenuta distante da socialisti e verdi ma confermando un sostanziale appoggio alla gestione von der Leyen in vista di una nomina di peso. In questo modo ha ottenuto tre risultati: tenere a bada l’alleato leghista e gli elettori più conservatori, entrare nella stanza dei bottoni dalla porta principale e far rapidamente sbiadire l’impronta di certe sue imbarazzanti amicizie politiche continentali, tipo Le Pen, Vox, Orbán e il gruppo di Visegrad. Un blocco di opposizione ai valori fondanti dell’Unione e della Nato e a ogni forma di integrazione europea come il percorso verso un Bilancio comune. Del resto, era un esito che era sembrato più vicino dopo la recente visita a Roma del leader dei popolari Manfred Weber, molto prodigo di elogi per il ruolo dell’Italia. Forza Italia è già dentro il gruppo popolare, quindi il corteggiamento di Weber era tutto per il partito della Meloni. La prospettiva di un doppio forno nella gestione politica di Bruxelles è molto gradita al Ppe.
E se la premier ha deciso di varcare proprio ora il Rubicone, non lo ha fatto in cambio di nulla o su fatti solo simbolici. Il Next Generation EU, insieme alla politica estera, è il nodo fondamentale dell’identità dell’Unione. E le future modalità di gestione di un Bilancio europeo di circa da 1,2 mila miliardi saranno molto legate al suo esito. Le difficoltà che molti paesi stanno evidenziando nei flussi di spesa sono una spada di Damocle sulla coesione interna. A oggi, scrive Gianni Trovati sul Sole 24 Ore, per rispettare la scadenza del 2026 occorre prevedere un cambio di passo molto consistente: in tre anni è stato impegnato meno del 30% dei fondi, negli altri due occorre attingere all’altro 70. Con Fitto ministro, l’Italia si è perlomeno messa in regola con le richieste e gli incassi dei finanziamenti, avviando anche le gare per il 91% dei 102 miliardi finora ottenuti. Spendere, certo, è un’altra cosa. Ora Fitto gestirà la partita dall’altra sponda, con la bussola della “spesa buona” di cui ha spesso parlato come leva dello sviluppo europeo. Anche perché l’Europa funzionerà sempre più con il modello-Pnrr: finanziamenti in cambio di azioni concrete che dimostrino capacità di spesa e di investimento.
Con la nomina europea di Fitto, si conferma il paradosso dell’avventura politica del governo Meloni. Molti pensavano che sarebbero stati i suoi rapporti internazionali a causare i maggiori problemi, fino a un rischio di isolamento dell’Italia. È accaduto l’opposto. Sull’Ucraina e nelle varie occasioni in cui si è reso necessario, Meloni si è mossa in modo coerente e in continuità con il governo Draghi. Sul piano interno, invece, gli sbandamenti non si contano, non tanto per divisioni che sono fisiologiche in una coalizione, ma per un diffuso dilettantismo in comportamenti ed esternazioni. Non è un caso che Giorgia abbia dovuto cedere a Bruxelles il suo cavallo di razza. E se Fitto da oggi gestirà l’economia europea, bisognerà subito correre ai ripari su quella italiana. Spesa effettiva dei fondi Pnrr, ma non solo. La pur ridotta asticella dell’aumento del Pil dell’1% rischia di non essere raggiunta. Il reddito reale delle famiglie italiane è ancora in calo, cresce il divario con l’Ue e per molti italiani l’autonomia differenziata lo farà aumentare anche all’interno del paese, fra Nord e sud. Ecco perché la scommessa politica di Meloni si gioca sempre più a Roma.