La Procura fa ricorso in Cassazione
Flop trattativa Stato-mafia, i Pm non si rassegnano e si trasformano in Travaglio
Roberto Scarpinato è ormai in pensione, ma gli uomini della procura generale di Palermo non si arrendono. Fine trattativa mai, dunque? “Trattativa” deve essere, quindi si corre fino all’ultimo gradino della giustizia, con il ricorso in cassazione contro la sentenza che ha mandato assolti i vertici dei Ros e il senatore Dell’Utri. Per loro la sentenza del settembre 2021 è “contraddittoria”, “illogica” e “lacunosa”.
Avrebbe dovuto trattare tutti gli imputati come amici dei mafiosi, per essere coerente, logica e completa? Quella decisione, che ribaltava le conclusioni del processo di primo grado, ma si uniformava al provvedimento che, in rito abbreviato, aveva assolto il senatore Calogero Mannino, era invece molto logica. Solo che, nelle tremila pagine della motivazione divisa in tre parti, sia nella ricostruzione dei fatti che nella loro interpretazione, prendeva le distanze da quella suggestione che aveva preteso di interpretare un pezzo di storia italiana solo come storia criminale e di complicità tra i boss e le divise.
La criminalità c’era, eccome, in quei primi anni novanta, e aveva la faccia feroce della mafia dei corleonesi. Si parte dall’uccisione di Salvo Lima nel marzo 1992 e poi di Giovanni Falcone nel maggio successivo. Lo Stato annichilito e tutti i boss mafiosi, a partire da Totò Riina, latitanti. Se in quei giorni gli alti ufficiali del Ros dei carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno avevano aperto un canale di comunicazione con Cosa Nostra non lo avevano certo fatto per complicità con la mafia e neanche solo per proteggere uomini politici come Mannino. Ma semmai al contrario per far cessare le stragi e salvare vite umane. Fini di solidarietà e di generosità, quindi.
Attività anti-mafiose, non mafiose come invece riteneva la Procura degli Ingroia e dei Di Matteo, e anche i giudici che avevano emesso la sentenza di primo grado. I giudici della corte d’assise d’appello presieduta da Antonio Pellino avevano prima di tutto sgombrato il campo dall’accusa più offensiva e degradante, la complicità, ma anche quella di aver obbedito a ordini partiti dal mondo politico. “Scartata in partenza l’ipotesi di una collusione dei carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa, confutata l’ipotesi che essi abbiano agito per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico, deve ribadirsi che nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, furono mossi piuttosto da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale e fondamentale dello Stato”.
Neanche per sogno, ribattono oggi i successori di Roberto Scarpinato, la pg Lia Sava e i sostituti Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, che nel processo avevano chiesto la conferma delle sentenze di condanna. Per loro gli ufficiali dei Ros “agirono consapevolmente nella certezza di ricevere richieste contrarie all’ordine pubblico, promosse da Cosa Nostra e di farsene latori innanzi gli organi istituzionali competenti per il loro soddisfacimento”. Sembra di tornare al libro di “storia trattativa” scritto dal re delle bufale Massimo Ciancimino, che aveva inventato di sana pianta (e per questo è stato condannato) il “papello” con cui Totò Riina avrebbe avanzato le proprie richieste allo Stato. Se quell’ipotesi è da tempo vanificata, perché i procuratori di Palermo la usano di nuovo per accusare i vertici dei carabinieri di aver aderito a richieste che non c’erano? E in che cosa la loro assoluzione sarebbe contraddittoria e illogica? Sembra di rileggere gli scritti di Travaglio dei giorni successivi alla sentenza d’appello.
Se sono condannati i mafiosi, scriveva il direttore del Fatto, allora devono andare in galera anche gli uomini dei Ros. Come se mafia e anti-mafia fossero sullo stesso piano, come se commettere le stragi o invece adoperarsi per farle cessare fossero azioni equivalenti e con contrapposte. Bisognerebbe avere allora il coraggio di dire che, se quegli uomini dello Stato hanno agito con dolo e consapevolezza di porsi fuori della legalità per attentare all’incolumità dei poteri dello Stato medesimo, forse erano davvero complici dei mafiosi. Forse mafiosi loro stessi. Diversamente (e una volta uscito dal processo quel Calogero Mannino che era indicato come il mandante politico di tutta l’operazione) ci troveremmo davanti a delitti privi di movente.
Ancora più inconsistente appare il ricorso in cassazione contro l’assoluzione di Marcello Dell’Utri. Che viene descritto come “navigato ed esperto uomo di confine tra Cosa Nostra e le alte sfere dell’imprenditoria nazionale”. E anche come “amico scomodo” di Silvio Berlusconi e “uomo comunque di straordinaria intelligenza e straordinaria capacità”. Uno sorta di genio del male, insomma. Dell’Utri avrebbe avuto il compito, sempre nella suggestione del “romanzo Trattativa” di ricattare colui che allora era Presidente del Consiglio, da parte delle cosche. Un postino, che però non ha fatto il suo dovere. Perché nel percorso compiuto nel suo ruolo di messaggero, si sarebbe fermato, secondo i giudici che lo hanno assolto, “all’ultimo miglio”.
E’ proprio questo soggiorno nell’area di sosta precedente il traguardo che non convince i procuratori di Palermo. Ma figuriamoci, scrivono, se Dell’Utri, latore di un messaggio così importante dei suoi amici di Cosa Nostra, se lo è tenuto per sé e non lo ha riferito al destinatario. Chiaro il tentativo, l’ennesimo, di tirar dentro anche il leader di Forza Italia, cercando di trasformarlo da ipotetica vittima di un ricatto a compartecipe della banda-trattativa. Peccato che il governo Berlusconi abbia subito prorogato il 41-bis, non facendo certo un favore a Totò Riina che vi era appena approdato.
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