Dai fondi alle imprese per l’emergenza Covid-19, deve essere escluso «chi sia stato condannato per reati di criminalità organizzata, reati contro la pubblica amministrazione e reati tributari», oppure «proposto per la irrogazione di una misura di prevenzione personale e patrimoniale». Il diktat viene direttamente dal Csm per bocca dei consiglieri Nino Di Matteo e Giovanni, detto Ciccio, Zaccaro. I due magistrati hanno chiesto questa settimana al Comitato di Presidenza di Palazzo dei Marescialli, composto dal vice presidente David Ermini e dai vertici della Cassazione, il primo presidente Giovanni Mammone e il procuratore generale, «l’apertura di una pratica perché il Csm svolga le sue funzioni consultive e propositive sul c.d. Decreto Credito».

Alla richiesta del pm del processo Trattativa Stato-mafia e del giudice barese si sono poi accodati il davighiano Sebastiano Ardita e i togati della sinistra giudiziaria di Area, la corrente di Zaccaro, Giuseppe Cascini, Elisabetta Chinaglia, Mario Suriano ed Alessandro Dal Moro. Secondo i magistrati «la decisione – senza dubbio opportuna (bontà loro, ndr) – di immettere ingenti risorse finanziarie nel circuito economico del Paese per fronteggiare le conseguenze della pandemia sul tessuto produttivo nazionale rischia di favorire anche le imprese criminali». «La previsione normativa – sottolineano i consiglieri del Csm – non contiene alcun meccanismo per escludere dai benefici le imprese riferibili a persone coinvolte in processi di criminalità organizzata o che abbiano riportato condanne o siano indagati per reati contro la pubblica amministrazione o reati tributari».

Un “vulnus” che era stato evidenziato domenica scorsa dalle colonne di Repubblica dai procuratori di Milano e Napoli, Francesco Greco e Giovanni Melillo. I due pm si erano lamentati dell’assenza di controlli sul punto «in un Paese ove il crimine organizzato, la corruzione e l’evasione fiscale sono connotazioni strutturali di ampia parte del tessuto sociale ed economico». Al grido di dolore dei due procuratori, sempre dalle colonne di Repubblica, si era unito, direttamente dal Massimario della Cassazione, l’attuale sede di servizio dell’ex capo dell’Anac, Raffaele Cantone: «L’allarme è molto realistico. Dico di più, lo giudico effettivo, e anche serio e documentato. Il pericolo è lì, davanti agli occhi di chi conosce corruzione e mafia. Il legislatore deve farsi carico del rischio che la mafia adocchi subito l’affare».
Musica, ovviamente, per le orecchie di Alfonso Bonafede che si e immediatamente dichiarato «pronto a cambiare il Decreto Credito». «Le soluzioni? Sono ancora da scrivere e saranno messe a punto in sede di conversione», la promessa ai pm del Guardasigilli.

In che modo si muoverà il governo non è chiaro. Si tratterà, comunque vada, di norme anticostituzionali. Come capita spesso anche a qualche magistrato, ci si dimentica che la pena in Italia non ha finalità afflittiva ma di reinserimento del condannato nella società. A maggior ragione il discorso vale per chi sia indagato e per il solo fatto di essere finito nell’italico gorgo giudiziario vedrà negarsi l’aiuto di Stato. Per non parlare, infine, della sterminata platea di soggetti coinvolti nel procedimento di prevenzione, previsto soltanto in Italia. Tale procedimento, vale la pena ricordarlo, mira ad accertare la pericolosità sociale della persona accusata, indipendentemente dal fatto che abbia o meno commesso un reato.

Per raggiungere questo scopo, appunto preventivo, i giudici si avvalgono di presunzioni, di allegazioni varie, di indizi. Tutti elementi che però non sono per nulla certi. Senza dimenticare le interdittive antimafia che, emesse senza contraddittorio, – dal 2013 al 2018, ultimo dato disponibile, sono aumentate del 300percento – distruggono le imprese, soprattutto al Sud, sulla base di una semplice parentela. L’arbitrio dei pm ha avuto la meglio anche sul coronavirus.