Bene i miliardi ma al Sud serve un piano
Fondi Europei per il Sud? Senza programmazione non serviranno a molto
Sapremo cogliere le ghiotte opportunità offerte dalla nuova Europa post-pandemica con il Recovery Fund? È la domanda che si pone ogni italiano interessato al bene pubblico. E la domanda dovrebbe oggi già avere risposte certe. Ma almeno finora non è così. La bozza governativa circolata nelle scorse ore, intitolata – non senza una certa enfasi – Next Generation Italia. Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (in sigla Pnrr), soddisfa solo in parte la legittima curiosità popolare, almeno per ciò che riguarda obiettivi e allocazioni delle ingenti risorse previste. Resta ancora avvolta nella nebbia la questione, per nulla secondaria, della governance, cioè di chi concretamente indirizzerà e controllerà l’impiego dei fondi.
Il documento del Governo ci offre la possibilità di conoscere le cifre e le destinazioni. Tra i dati più rilevanti c’è l’ammontare complessivo di risorse messe a disposizione: ben 309 miliardi di euro per il periodo 2021-2029, poiché ai 209 miliardi previsti dal Recovery Fund vanno aggiunti i 100 miliardi provenienti dal Quadro finanziario pluriennale. Nel primo quinquennio 2021-2026 potranno essere utilizzati 193 miliardi, pari al il 6,8% del reddito nazionale lordo. Una parte dei fondi sarà costituita da sussidi (65,5 miliardi) e una parte da prestiti (127,6). Il Governo intende usare i sussidi per la “spinta macroeconomica aggiuntiva”, mentre i prestiti saranno utilizzati per sostituire altre spese finanziate da debito pubblico ordinario o saranno “compensati” da entrate in relazione agli obiettivi di bilancio.
In sostanza i prestiti del Recovery Fund dovranno “sterilizzare” il debito pubblico nazionale poiché è chiaro che, in Europa, dopo la pandemia nessuno farà sconti sul nostro ingente debito (pari a 2.575 miliardi, stimato tra il 158% e il 162% del pil). Sei sono le missioni di intervento individuate: digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura (che assorbirà il 24,9% delle risorse complessive); rivoluzione verde e transizione ecologica (il 37,9%); infrastrutture per una mobilità sostenibile (il 14,1%); istruzione e ricerca (il 9,8%); parità di genere, coesione sociale e territoriale (8,7%); e infine salute (il 4,6%). Una scelta curiosa desta l’attenzione: il grande problema del Mezzogiorno e della coesione territoriale è stato aggiunto alla parità di genere e a una generica coesione sociale. Obiettivi nobili certamente, ma l’annoso divario Nord-Sud meritava una missione specifica.
Cosa propone allora il Pnrr per il Mezzogiorno? Misure a favore dello sviluppo delle aree interne e montane mediante erogazione di maggiori servizi, potenziamento delle infrastrutture sociali e incentivi alle imprenditorialità (strumenti già visti e ampiamente fallimentari); piano energia per Sardegna e piccole isole; poli tecnologici per non meglio precisati progetti di innovazione; sostegno tecnologico all’agricoltura (ancora si insiste su una presunta vocazione agricola del Mezzogiorno, dimenticando la lezione di meridionalisti come Rossi Doria e Saraceno) e fondi per la gestione di beni confiscati (implicita ammissione di come il crimine organizzato controlli, nel Mezzogiorno, una buona fetta di economia), rafforzamento e semplificazione amministrativa delle Zone economiche speciali indirizzate a una vocazione mediterranea (ma intanto nulla si fa per pacificare il Mediterraneo e soprattutto la Libia, restituita alla Turchia dopo un secolo dalla guerra giolittiana).
Si tratta di misure già individuate nel Piano Sud 2030 – Sviluppo e coesione per l’Italia, approvato nel febbraio scorso. Uno specifico paragrafo in fondo alla bozza più concretamente stima l’effetto potenziale sulla crescita e sull’occupazione del complesso degli interventi che riguarderanno le Regioni del Mezzogiorno nel periodo 2021-2026. Al Sud andranno complessivamente circa 100 miliardi di euro provenienti prevalentemente dai fondi additivi previsti dal Recovery Fund e dal Fondo per lo Sviluppo e la Coesione. L’impatto stimato a livello delle regioni interessate sul pil reale dovrebbe essere nel 2024 di +5,3% rispetto allo scenario di base 2020, l’impatto sull’occupazione dovrebbe essere del +4,2%. Le cifre per l’Italia sono rispettivamente di +1,1% e +0,85%. Il Sud, dunque, dovrebbe crescere molto più della media nazionale recuperando gran parte del divario.
Il nodo resta chi gestirà questi fondi. Lo stesso documento sottolinea con enfasi che «la costruzione di una adeguata governance è un presupposto per la realizzazione dell’intero piano e anzi deve essere considerata parte integrante del piano stesso». Giusto, ma cosa si propone? Ebbene tutti questi fondi saranno gestiti con compiti di indirizzo e controllo da un comitato esecutivo, composto dal premier e dai ministri dell’Economia e dello Sviluppo Economico, mentre per il raccordo con la Commissione europea è individuato quale referente unico il ministro degli Affari Europei che agirà d’intesa con il ministro degli Esteri. Questi i vertici a cui è affidato il compito di gestire risorse mai viste prima. Ma tra il vertice che deve ordinare e indirizzare e l’ultimo operaio che deve eseguire c’è un vuoto assoluto dato dalla storica assenza di una consolidata esperienza di programmazione.
Con questa espressione intendo uffici nazionali con articolazioni regionali, preposti istituzionalmente alla gestione di risorse pubbliche, con personale tecnico esperto e centri di ricerca aggregati che utilizzano procedure burocratiche standard e formulano previsioni su un unico modello econometrico di medio-lungo periodo e su dettagliate tavole di input-output regionali per permettere di definire univocamente il diverso impatto delle politiche tra Nord e Sud. Un ufficio permanente subordinato a un Ministero della Programmazione Economica, esistito in Italia dal 1947 al 1998, ma che non ha mai avuto grande peso in quanto era semplicemente un carrozzone di giuristi e burocrati privi di competenze economiche.
Il fallimento dei piani in Italia è noto: dal piano Vanoni del 1955 ai tentativi di La Malfa, Giolitti, Pieraccini negli anni del centrosinistra, fino al piano De Michelis del 1985. Noi italiani amiamo troppo il nostro estro improvvisatore per affidarci a un’ordinata e scientifica programmazione, indipendente dalle contingenti pressioni politiche e localismi vari, e ora pare che tireremo fuori un improvvisato esercito di 300 consulenti, per lo più tirati in ballo senza una consolidata esperienza di gestione di risorse pubbliche, che dovrebbero colmare il vuoto tra i quattro ministri al vertice e l’ultimo operaio di un cantiere.
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