La crisi della scuola
Formazione e lavoro in Italia non funzionano: serve una cura da cavallo ma i soldi mancano
Provvedimenti strutturali, investimenti sostanziosi, una visione di lunga durata e gli stipendi dovrebbero essere aumentati
“Studia figlio mio che ti fai una posizione e diventi qualcuno”. Erano i tempi – anni settanta, anche ottanta – in cui lo studio era l’ascensore sociale per eccellenza. I successivi venti, trenta anni hanno fatto a pezzi quell’antico e saggio consiglio. Mettiamo in fila un po’ di numeri che sono sempre necessari per analizzare un fenomeno. In questo caso, diciamolo subito, un’emergenza. Si, certo, i nostri figli vanno di più a scuola: secondo i dati di Eurostat (relativi al 2022, gli ultimi disponibili), in Italia ci sono oltre sette milioni di studenti, il 29,2% dei quali raggiunge la maturità (51,4% licei; 31,7 tecnici; 16,9 professionali). Nel 2007 erano il 18,5%. Anche il tasso di abbandono scolastico è migliorato pur restando maglia nera in Europa con un tasso del 14,5%. Peggio di noi solo Spagna, Malta e Romania. Siano lontani da Germania e Francia (tra l’8 e il 10 per cento). I migliori sono Slovenia (4,2% e Croazia (2,3).
La quota di laureati più bassa
Dati con più ombre che luci. Perché se andiamo a vedere la situazione tra i laureati il problema della formazione scolastica in Italia è l’iceberg contro stiamo andando a sbattere. L’Italia è penultima in Europa per numero di laureati: tra i 25-34 anni, circa 1,8 milioni, solo il 29,2 ha una laurea. Il confronto con gli altri Paesi Ue ci deprime: in Germania sono il 37,1%, in Francia e Spagna le percentuali superano il 50 per cento. Il passaggio dalla scuola al lavoro rivela scenari sconfortanti: le statistiche ufficiali dicono che i diplomati italiani che hanno trovato lavoro entro i tre anni dal titolo di studio sono il 63,5% contro il 76,3% dei francesi, il 77,8% degli spagnoli e il 91,4% dei tedeschi. Per i laureati la situazione migliora ma di poco: hanno un lavoro, a tre anni dal titolo, il 74,6% contro l’83 % di spagnoli e francesi e il 94,4% dei tedeschi. Ricapitolando: tra i quattro principali paesi europei, abbiamo la quota di laureati più bassa e fanno più fatica a trovare lavoro. La laurea triennale, che ha abbassato la qualità del titolo di studio nella speranza di abilitare meglio e prima più persone al lavoro, è un flop: a un anno dalla laurea, solo il 31,9% ha un contratto a tempo indeterminato. Si arriva al 68,2% entro i cinque anni.
Il quadro si completa con una ulteriore manciata di dati. Gli stipendi per i neodiplomati al primo impiego si aggira intorno a 8-900 euro netti. Quelli dei neolaureati superano di poco i 1300 euro netti. In Italia c’è poca differenza tra il mensile di un diplomato e di un laureato (25% in più) mentre in Germania e in Spagna la forbice raggiunge il 35% e il 48 per cento. Il paradosso è che spendiamo per istruzione e formazione il 4,1% del pil contro una media Ue del 4,9 ma poi regaliamo i benefici di questo investimento. Il saggio “Gioventù bloccata” (autori Valentina Magri e Francesco Pastore) stimano che ogni anno buttiamo 4,5 miliardi visto che formare un diplomato ci costa in media 77 mila a studente, un laureato 164 mila euro e un dottore di ricerca 228 mila euro. Questa lunga, forse noiosa, sicuramente parziale lista di dati e percentuale è una sentenza definitiva di terzo grado: in Italia il sistema di formazione, e quindi di accesso al lavoro, non funziona. Non siamo un paese per giovani.
Eppure mancano diecimila infermieri, 4500 medici, sono almeno 2.300 le posizioni aperte per ingegneri elettronici (i più ricercati). Confindustria lancia allarmi stagionali per saldatori, elettricisti ma anche camerieri e baristi. La lista della ricerca di forza lavoro è lunga. Pesa il fatto che il 42 % dei laureati ha scelto materie umanistiche, nel campo della scienza dell’educazione e del sociale. La media europea è del 29% e forse non sono così tanto più ignoranti di noi. Resta invece troppo bassa la quota dei laureati nelle discipline Stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica): in Italia solo il 25 %sceglie queste materie mentre in Germania è il 38%. Negli ultimi dieci anni tutti i governi, a destra e a sinistra, hanno avuto ben chiara questa diagnosi. La cura è facile: provvedimenti strutturali, investimenti sostanziosi e una visione di lunga durata. Un “vasto programma” che può pendere corpo da alcuni provvedimenti come il monitoraggio costante e approfondito del sistema educativo per affrontare specifiche criticità locali (il sud è diverso dal nord, purtroppo) e condividere eventuali soluzioni. Occorre investire nella formazione degli insegnanti, una formazione vera e non cinque ore ogni sei mesi, mentre studiano e, soprattutto, quando già lavorano. Dovrebbero essere aumentati gli stipendi visto che lo stipendio medio lordo annuo di un docente italiano è di 29.669 euro contro una media Ue di 33.021 euro.
La cura di cavallo
Vanno messe le mani sui programmi scolastici, per lo più vecchi. noiosi, sganciati dalle sfide quotidiane del contemporaneo. Andrebbero infine coinvolti gli studenti nei processi decisionali e in quelli formativi. Magari in questi mesi starebbero meno a protestare fuori le aule e di più a ragionare su iniziative e proposte costruttive. Meno problemi per la condotta e meno tempo perso con leggi che vorrebbero introdurre la bocciatura (vedi Valditara). Una cura da cavallo per il nostro sistema della formazione, chiara a tutti i ministri che si sono succeduti in viale di Trastevere. Eppure cambia poco o quasi nulla. I sindacati, personale scolastico e non, hanno per troppo tempo messo al primo posto delle richieste le assunzioni e gli stipendi. Risultato: sono diventati stabili docenti magari anziani e senza quella flessibilità anche di saperi che è invece necessaria per interagire con i ragazzi. Per il resto è tutto bloccato. Mancano i soldi, certo, il primo motivo ma non l’unico della nostra insufficienza. Siamo in eterna fase di rinnovo dei contratti, Ma non basta. La Cisl sta cercando di andare oltre i soldi e le liste di assunzione.
Rischio docenti senza lavoro
I programmi di formazione permanente “per adeguare in maniera organica le competenze didattiche ai diversi bisogni educativi” non esistono perché non sono finanziati. Il Pnrr ora ci ha messo 600 milioni ma nel 2026 finiscono e il rischio di sprecarli è alto. Mancano figure professionali per “coordinare la governance dell’offerta formativa d’istituto”. Per dirla meglio, non ci si improvvisa tutor specializzato nell’alternanza scuola-lavoro. Vengono fuori pasticci, e anche peggio, per cui un ragazzo di 17 anni si ritrova a fare fotocopie in un ufficio senza sapere perché. Ma è capitato anche di peggio, al limite dello sfruttamento. Tra dieci anni la popolazione scolastica calerà di circa un milione e mezzo. I sindacati questo lo hanno ben chiaro e sono preoccupati: saremo pieni di insegnanti senza lavoro. La Cisl chiede di passare al tempo pieno. Proposta sensata, vediamo che fine farà.
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