L'intervista
Francesca Borromeo: “Scuola e regia: la mia scalata per diventare casting director”
“Lavorare con Bellocchio è stata un’esperienza incredibile”. E sul tax credit consiglia: “Non tagliare, ma riflettere su come vengono impiegati i fondi”
Francesca Borromeo, una delle maggiori casting director italiane. Vincitrice dei Nastri D’Argento 2023 per Mixed by Erry e nel 2021 per L’Incredibile Storia dell’Isola delle Rose e Carosello Carosone.
Francesca, non tutti lo sanno, ti chiederei subito chi è e che cosa fa esattamente il casting director.
«Il casting director è un capo reparto del cinema che si occupa di proporre al regista degli attori, in un certo senso la nostra “materia prima”».
É quindi una sorta di cacciatore di teste come per le aziende?
«No, tutta la sua preparazione si fonda sulla sensibilità che ha rispetto all’essere umano, perché il casting director crea dei rapporti di fiducia molto forti con il regista».
Quindi tu hai la sceneggiatura prima ovviamente.
«Certamente, la prima cosa è leggere la sceneggiatura che mi inviano i produttori o i registi, e già mentre leggo di solito comincio a vedere qualcosa. Se non vedo qualcosa mi preoccupo molto! Perché è essenziale il passaggio che porta le parole a definire dei corpi e dei volti».
Ricordiamolo, tu ha lavorato con registi come Bellocchio, Nicchiarelli, Mordini, Sibilia… Insomma, nomi di rilievo.
«Per me lavorare, ad esempio, con un maestro come Bellocchio è stata un’esperienza incredibile perché è uno dei miei registi di riferimento e con lui ho potuto fare un film importante come Il traditore. Ogni film però è un unicum, si parte da zero anche a fronte di un bagaglio di diverse esperienze. Ogni volta, tuttavia, devi entrare in mondi e in fantasie che sono sempre nuove, quindi oltre alla preparazione e alla conoscenza del tessuto attoriale, andando spesso ovviamente a teatro e al cinema, bisogna avere una grande malleabilità».
Ma come si diventa casting director, tu come hai iniziato?
«Si può iniziare in vari modi. La mia passione è nata negli anni del liceo frequentando molto i cinema d’essai (prima ce n’erano tanti di più) e mi sono innamorata di tutta la Nouvelle Vague e in particolare di Truffaut. Ho poi frequentato una scuola di cinema ma ho iniziato dal set, a mio avviso un passaggio fondamentale per chi vuole fare questo mestiere. Ho iniziato come assistente alla regia, e l’allora aiuto regista Francesco Vedovati aveva cominciato ad affiancare a quel ruolo anche quello di casting director, una professione che nasce in un’industria avanzata come quella americana soprattutto in funzione della serialità. Per cui sono diventata prima assistente del casting director e poi ho scelto definitivamente questa strada».
Ho letto che dal 2025 verrà istituito il premio al miglior direttore casting anche nei David di Donatello, e quindi allargando la platea oltre ai giornalisti del settore. Sarà una buona notizia per te immagino.
«È una notizia importante perché questa battaglia la stiamo portando avanti da anni in tutto il mondo, ed essendo la nostra una tra le maggiori cinematografie europee facciamo un po’ da apripista anche per gli altri paesi. In Francia ad esempio ancora non c’è questo riconoscimento, i primi sono stati gli inglesi con i Bafta, dopodiché ci siamo noi».
Mi dici un film, una serie, di cui avresti voluto scegliere il cast?
«Io direi in generale che tutto il cinema di Kaurismaki su questo aspetto mi piace molto, ma prima ancora ti direi Dolan. Quando vidi Mommy il rapporto tra quel figlio e quella madre mi colpì particolarmente. La prima cosa che pensai fu “sono pazzi, ma che volto è, che volto assurdo”. Un volto insolito, totalmente fuori dalla tradizione del grande cinema, ma che tradendo appunto i canoni consueti aveva prodotto un qualcosa di completamente nuovo e straordinario».
Siamo alla fine della Festa del cinema di Roma, non posso non farti una domanda che forse qualcuno si farà, ovvero abbiamo avuto solo qualche settimana fa il Festival di Venezia: ha senso replicare a distanza di così poco tempo un evento del genere a Roma?
«Sono due eventi molto diversi che in realtà non confliggono. I festival importanti come Venezia, Cannes, Berlino, il Sundance, sono luoghi della cinematografia, della difesa dell’autore e della sua complessità. Mentre la festa del cinema di Roma è appunto una festa, è larga, non è settaria. Se i festival tradizionali devono appunto tutelare anche delle nicchie poetiche o delle voci dissonanti alla festa di Roma invece c’è spazio per un po’ di tutto, ed è proprio questa la sua forza, la volontà di includere stili e formati diversi, di accogliere indistintamente la commedia così come il grande autore».
C’è un attore o un’attrice scelti, o diciamo, scoperti da te di cui sei particolarmente orgogliosa?
«Questa è una domanda scivolosissima, non vorrei fare torto a nessuno. Posso raccontarti però un episodio particolare, di quando stavo preparando il film di Matteo Rovere Veloce come il vento, un film sui circuiti e sui rally in Emilia Romagna. Cercavamo la protagonista, che doveva essere una ragazzina, abbiamo fatto tanti provini e trovato molte attrici brave ma nessuna ci aveva particolarmente colpito. A quel punto decidemmo di fare uno street cast mobilitando la città di Bologna, parteciparono centinaia di persone eppure ancora non ne venivamo a capo. Passai poi una sera con un gruppo di ragazzi luminosi e divertenti costringendoli tra uno spritz e l’altro a tirare fuori dei nomi… E alla fine, dopo ore, esce fuori il volto di Matilda De Angelis. La vidi, la chiamai subito – lei suonava, non aveva tempo – vedemmo solo un provino che ci aveva mandato e poi la convocammo insieme a Stefano Accorsi. Non posso dimenticarmi la scena in cui doveva alzarsi da un dondolo ubriaca, secondo la sceneggiatura, e invece scelse di cadere per terra. Una che non aveva mai recitato prima».
Non voglio coinvolgerti in una valutazione politica ma culturale. Il ministro Sangiuliano ha annunciato dei tagli nel settore del cinema sostenendo che in proporzione ai contributi statali molti film incassano troppo poco. Secondo te può essere questo l’unico metro di valutazione, in un momento in cui la serialità di fatto contribuisce a svuotare le sale, col rischio che di questo passo si finisca a non finanziare più nessuna produzione?
«Io credo che bisogna capire a monte la destinazione giusta di un’opera oggi. Già prima del Covid portare le persone al cinema non era semplice, adesso è ancora più difficile. La sala è diventata sempre più selettiva. Perché se esce un film di Lynch, che è oggettivamente un’esperienza profonda e coinvolgente, in sala ci si va. Lo stesso vale ad esempio per l’ultimo di Garrone. Nolan con Oppenheimer sono mesi che riempie i cinema. Certamente c’è un problema se escono dei film che nemmeno gli addetti ai lavori si sognerebbero mai di vedere. Non bisogna certo tagliare sul tax credit ma magari una riflessione aggiuntiva su come questi fondi vengono impiegati nei vari progetti forse andrebbe fatta».
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