Francesco Cossiga, un cattolico liberale in un partito di affaristi

Era ancora l’altra Italia, quella precedente. Sì, c’era stato il muro di Berlino, molto rumore e accesi dibattiti, ma ancora non si sapeva dove si sarebbe aperta la crepa. Un indizio c’era, ma non andava molto oltre l’aspetto in apparenza buffo, aneddotico e magari leggermente psichiatrico del solo fatto degno di nota: il signor presidente della Repubblica in carica, Francesco Cossiga, che per anni se ne era stato buono e tranquillo anzi invisibile e misterioso dietro le tende del Quirinale, improvvisamente era diventato matto.

Fu creato un verbo per indicare le sue azioni verbali: «Esternava». Mandava all’esterno del suo corpo e della sua mente ciò che vi albergava da tempo, represso come in un fucile ad aria compressa. Da mite e ossequioso, istituzionale e quasi invisibile, si era fatto aggressivo, e diceva che doveva togliersi i sassi che aveva nelle scarpe e menava botte da orbi a destra e a manca, più a manca che a destra. Io ero appena approdato a La Stampa diretta da Paolo Mieli, condirettore Ezio Mauro che sei anni dopo sarebbe diventato direttore di Repubblica, da cui io provenivo dal giorno della fondazione.

Questa è la storia di come, per puro caso, diventai non soltanto il confidente del presidente della Repubblica ma colui che, con pochi altri, difese persino la sua follia e vide che – a parte qualche eccesso in liquerizia e qualche compressa di litio – il primo cittadino era non soltanto sano di mente, ma probabilmente vedeva più lontano di tutti gli altri. E che aveva tirato l’allarme facendo suonare tutte le sirene e quasi sbandare il convoglio istituzionale. Erano dunque i primi di gennaio del 1990, nei giorni in cui ogni anno le singole Procure inaugurano l’anno giudiziario. Mi chiamò Ezio Mauro e mi disse: «Perché non vai a Gela? Domani Cossiga inaugura l’anno giudiziario e probabilmente farà il matto anche lì».

Per puro caso la sera prima era andata in onda, ma non lo sapevo, la registrazione di una puntata di Harem di Catherine Spaak. In quella trasmissione Catherine mi aveva chiesto notizie di mia figlia Sabina che muoveva i suoi primi e gloriosi passi nella satira televisiva. Io non lo sapevo, ma Cossiga, che era un animale televisivo informatissimo, sì. A Gela un servizio d’ordine poliziesco piuttosto brusco aveva confinato la fastidiosa massa dei cronistacci e dei paparazzi in un androne dell’ingresso, mentre la macchina del presidente della Repubblica e della sua scorta arriva con stridore di gomme e luci lampeggianti. Io non avevo mai visto Cossiga e dunque quando lo vidi dirigersi a passo di carica verso di me, mi chiesi se ci fosse qualcosa di molto strano.

Cossiga mi afferrò per un braccio portandomi via dalla mischia, dicendomi col suo accento sardo che gli raddoppiava tutte le consonanti: «Non sapevo che lei avesse una figlia attrice. Mi sembra anche molto bella e molto brava». Capii allora che aveva visto la mia intervista dalla Spaak e risposi con parole di circostanza, mentre il presidente mi trascinava sui gradini di una scala con tutto il codazzo di guardie del corpo e dignitari, fra cui il sindaco di Gela disperato per essere stato estromesso dal suo posto di accompagnatore ufficiale con fascia tricolore del presidente, il quale lo ignorava e invece seguitava a parlarmi.

Il sindaco, furibondo, si aggrappò allora alla giacca della mia grisaglia e la aprì verticalmente in due lasciandomi in maniche di camicia e brandelli come in un film di Charlie Chaplin. Cossiga non mi mollò e il sindaco mi prese a gomitate molto decise all’altezza dello stomaco. E non mollai neanche io. Arrivammo nell’aula e io restai incollato a Cossiga in una ressa senza ossigeno, ma colma di rancori.  Il presidente fece il suo discorso e senza alcun preavviso attaccò Giorgio Bocca, uno dei principi del giornalismo italiano. Erano i tempi dei delitti della banda detta della “Uno Bianca” in cui erano stati implicati alcuni carabinieri. Bocca aveva scritto quel giorno un articolo in cui sosteneva più o meno che i carabinieri erano storicamente degli eversori (alludendo al famoso “Piano Solo” ai tempi del generale De Lorenzo, accusato di propositi golpisti) e Cossiga diventava una belva se qualcuno gli toccava i “suoi” carabinieri di cui si considerava il supremo protettore. Dunque, fra l’altro, pronunciò una invettiva contro Bocca molto dura, accusandolo di vilipendere.

Io prendevo nota su un piccolo notes. Il punto su cui ero chiamato a render conto ai miei lettori era: Cossiga è matto o no? Sembrava davvero preda di un delirio fuori controllo, oppure diceva semplicemente cose che molti consideravano sgradevoli? Fra pazzia e divergenze d’opinione, c’è un abisso. Così, ricordo che mi dedicai al suo body language, i movimenti minimi che potevano suggerire segni di agitazione e scompostezza e potevo farlo perché ero attaccato a lui come una cozza, in una ressa irrespirabile. Ricordo in particolare i suoi radi capelli bianchi che erano composti e immobili. La voce era alta, ma secca, con un tono sprezzante costante. Non isterico. Poi ci salutammo, ci separammo e corsi in albergo per scrivere un pezzo in cui facevo la cronaca dell’accaduto dando conto di parole e fatti (non della mia sventurata giacca) ignorando di compiere in questo modo un gesto eversivo.

Il giorno successivo infatti quasi tutti i giornali titolavano sulla follia presidenziale, l’evidente patologia mentale e il fatto – che di lì a poco sarebbe emerso come fatto istituzionale – che Cossiga non sarebbe stato nelle condizioni mentali per reggere il suo ufficio: «Not fit» per l’Economist e una celebre giornalista inglese lo definì matto come le lepri di marzo quando vanno in amore, un’espressione ripresa da Lewis Carroll nel Tè del Cappellaio matto (una lepre) in Alice in Wonderland. Tutti avevano scritto che Cossiga era matto, tranne me. Ero forse matto io?  Fu così che mi accorsi per la prima volta (ne sarebbero seguite molte altre) che alcune persone preferivano cambiare marciapiede quando mi incontravano per strada. Cossiga non usava ancora il verbo «picconare» (l’avrebbe inaugurato alla presentazione del mio libro su di lui Cossiga uomo solo) ma assestava colpi micidiali al suo partito e ai partiti che lo avevano eletto quasi all’unanimità. Che cosa gli era preso? Me lo spiegò man mano che il nostro rapporto si trasformava in amicizia. Ma fu un processo lento.

Dopo alcuni giorni dal mio primo articolo mi telefonò all’alba allarmando il bambino della mia compagna il quale mi svegliò scuotendomi: «Che cosa hai fatto a Bush?». A Bush?, chiesi «Sì, c’è il presidente al telefono e ti vuole parlare subito». Per un bimbo di cinque anni l’unico presidente noto era quello americano. Andai al telefono e mi sentii chiedere: «Che cosa sa lei dei cattolici liberali?». E mi impartì una dottissima lezione il cui significato era: io sono l’unico cattolico liberale in Italia, sono solo come un cane in un partito di affaristi o integralisti. Gli mandai per corriere (non esistevano ancora le e-mail) un articolo in cui ricostruivo la nostra conversazione chiedendogli l’autorizzazione a pubblicarlo.


Mi rispose: «No, ma venga domattina alle sette a fare colazione al Quirinale». Andai e trovai la crème de la crème della sinistra italiana: Andrea Barbato, Sandro Curzi, Valentino Parlato e mezza redazione de il manifesto con qualche scampolo de l’Unità. Tutta gente intelligentissima, un po’ anarchica ed eretica impegnata fra cappuccini, cornetti e uova strapazzate con cui Cossiga aveva una familiarità molto giocosa. Quello sì, che sembrava il Tè del cappellaio matto. Ma allora erano tutti matti, o così sembrava.  Lo stesso Cossiga che veniva scudisciato sulla carta stampata, era il beniamino di un bel gruppo di intelligentissimi e spiritosissimi pensatori e giornalisti. Non c’era Eugenio Scalfari, che era in quel momento uno dei suoi principali avversari e questo faceva soffrire molto Cossiga perché per anni – mi diceva – era stato a pranzo da Eugenio una volta alla settimana. Eugenio stesso mi aveva raccontato di aver lui stesso suggerito a De Mita il nome di Cossiga per succedere come presidente del Senato ad Amintore Fanfani che si era giocato la poltrona pur di fare un governicchio estivo.

Poi, dopo mille premesse, promesse ed emozioni, venne il momento della prima intervista ed era allora un vero scoop, perché tutti speravano di poterlo intervistare. Mi spiegò il senso della sua azione, che era la semplice presa d’atto di quel che stava per accadere: «L’Italia, con la fine della Guerra Fredda – disse – ha perso il suo potere di ricatto sugli americani e gli altri alleati. Non contiamo più niente e coloro che ci hanno dovuto sopportare con tutti i nostri tradimenti, ricatti, ruberie e arroganze, stanno per presentarci il conto e sarà salatissimo. Sto cercando di fare capire ai democristiani e ai comunisti (che considerava come i carabinieri, dei suoi parenti, vista la cuginanza con Enrico Berlinguer il quale gli rispondeva che «con i parenti si mangia l’agnello a Pasqua» e lo mise in stato d’accusa) che nel nuovo mondo tutte le regole sono cambiate ed è mio compito traghettare l’Italia nella nuova realtà storica».

Vaste programme, avrebbe detto de Gaulle. Ma la Dc di Ciriaco De Mita, e non solo, non aveva alcuna intenzione di farsi rieducare da Cossiga, il quale vantava – con parecchia millanteria – una frequentazione nelle altissime sfere dell’intelligence mondiale delle segrete ruote che governavano il pianeta. Aveva un caratteraccio, questo è indubbio. Era certamente un po’ paranoico (la paranoia consiste nel vedere complotti e veleni, ma è una sindrome utile se si vive in un’epoca di complotti e veleni), era soggetto ad accessi di collera che erano però più di natura sarda che psichiatrica: il codice cavalleresco dei gentiluomini sardi impone delle furie di facciata che soltanto i veri sardi possono capire.

Ed è una furia fredda, che non fa salire la pressione, anche se siamo nell’antropologia e nel nazionalismo sardo, perché Cossiga era anche un nazionalista sardo più o meno come lo sono i corsi. Fu così che le mie interviste con il presidente della Repubblica, da formali e in pompa magna si fecero frequenti e convulse. Decise di darmi del tu e di chiamarmi “A Guzzà”. Recalcitravo alla richiesta di fare altrettanto ma non fu contento finché non passai a un improbabile “A Francé”. Si palpava benissimo il desiderio della nomenklatura italiana di levarselo dalle scatole e rimuoverlo con acrobazie procedurali accompagnate da comitati di psichiatri che avrebbero dovuto proclamare un reggente finché il Parlamento non avesse eletto un successore.

Per fortuna non ero solo nel difendere il presidente che aveva previsto Mani Pulite e l’assalto alla cittadella e che senza pensarci due volte, aveva mandato una legione di carabinieri in assetto anti-sommossa a Palazzo dei Marescialli per mandare un segnale inequivocabile al Consiglio superiore della Magistratura riunito nel Palazzo dei Marescialli, di cui lei era il presidente, anche se nel Csm chi governa è il vice presidente, ai tempi Giovanni Galloni. Dovetti a un certo punto scoraggiarlo dalla sua pretesa di affidare a me tutte le sue punzecchiature contro gli altri politici. Ma era un’impresa quasi disperata. Un giorno pretese di farmi scrivere che Achille Occhetto era «Uno zombie coi baffi».

E io mi rifiutai: «Non è da te, presidente, io non lo scrivo». Poco male: il giorno dopo «Occhetto è uno zombi coi baffi» era un titolo de il Messaggero. Mi aveva bypassato senza tragedie e meglio così. Quando si dimise mi volle al Quirinale fra le sue scartoffie, consegnò la bandiera di combattimento al bambino che gli aveva risposto al telefono raccomandandogli di custodirla per la generazione dei futuri patrioti e mi chiese di accompagnarlo in esilio in Irlanda. Mi mandò al 33mo Stormo di Ciampino dove lo attendeva il jet presidenziale e gli fui accanto mentre il pilota metteva la prua sull’Irlanda. Parlammo poco e lui si lasciò vincere da una lacrima o due. Io gli detti una goffa pacca sulla spalla.

Poi andammo in taxi fino al monastero dove lo attendevano e dove il bibliotecario era sulla soglia a braccia aperte per discutere con lui i libri dei pensatori cattolici irlandesi. La porta si richiuse e finì così la mia straordinaria avventura giornalistica con un presidente molto speciale che poi ho sentito solo poche volte per telefono e che visitai una sola volta nella sua casa al quartiere Prati, ormai abbandonato da tutti.