Ed è così che si attraversa la morte: amando
Francesco, il Papa che ha amato “fino alla fine”: migranti, carcerati, periferie, l’eredità di Bergoglio

- “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13,1)
Come un fulmine a ciel sereno, proprio nel cuore del tempo pasquale, all’alba del lunedì dell’Angelo – quel giorno che la liturgia e la tradizione popolare chiamano “della corsa”, perché annuncia la gioia che corre più veloce del lutto – arriva la notizia che nessuno avrebbe voluto leggere: Papa Francesco è morto. Jorge Mario Bergoglio, primo papa gesuita, primo papa venuto “quasi dalla fine del mondo”, ha concluso il suo cammino terreno. Un cammino segnato da gesti profetici, parole fuori dagli schemi e da un amore concreto e viscerale per i poveri, la pace, la fraternità universale.
Il lunedì dell’Angelo, che prolunga la luce della Resurrezione e si fa annuncio contagioso, si tinge così di lutto e di silenzio. Ma non è un silenzio vuoto, piuttosto un silenzio colmo di memoria, di fede, di gratitudine. Perché Francesco, come il Maestro di cui portava il nome e che ha cercato di imitare in ogni fibra della sua carne fragile e ostinata, ha davvero amato “fino alla fine”, fino all’ultimo respiro. E il suo ultimo tratto di strada – segnato dalla malattia, dalla fatica, da un corpo che lentamente si spegneva – è stato forse il più eloquente, il più autentico annuncio pasquale: testimonianza di un amore che non si ritira, che non si arrende, che non si sottrae alla croce. Un amore capace di restare anche quando tutto sembra crollare.
Il Papa pastore
È difficile in queste ore non vedere un intreccio misterioso e potente tra la Pasqua celebrata nella liturgia – solo poche ore fa – e quella vissuta nella carne e nella fede da Francesco. Un uomo che non ha mai voluto essere semplicemente un “capo”, ma un pastore. Che ha osato inchinarsi per chiedere la benedizione del popolo di Dio, nel giorno della sua elezione. Che ha aperto le porte della Chiesa, spalancandole agli ultimi, ai migranti, ai carcerati, ai lontani, ai dimenticati. Che ha cambiato lo stile del pontificato, portandolo dalla curia alle periferie, dalle formule ai gesti, dalla teoria all’abbraccio.
La sua morte arriva proprio nei giorni in cui la Chiesa canta la vita che vince la morte. E questo non è solo un paradosso del calendario: è un messaggio teologico. Francesco è stato, per molti, il volto credibile di una fede che si fa prossimità, dialogo, umiltà. E anche ora, nel momento del distacco, continua a insegnare. Perché la Pasqua non è solo un evento da ricordare, ma una realtà da vivere. E lui l’ha vissuta, fino in fondo.
Francesco ha amato fino alla fine
Lo piangono oggi credenti e non credenti, uomini e donne di ogni cultura e religione, leader e popoli, perché in lui si è manifestata una forza mite, capace di parlare con verità e compassione a un mondo lacerato da guerre, diseguaglianze e sfide inedite. Francesco ha dato voce a chi non ne aveva, ha denunciato l’indifferenza come il vero peccato globale, ha promosso un’ecologia integrale che salda insieme la cura del creato e quella dell’umanità. E ha richiamato costantemente la Chiesa alla sua essenza: una comunità in cammino, fragile e ospitale, non una cittadella chiusa e trionfante.
Ora che il suo corpo torna alla terra, la sua parola resta. Resta il magistero di un Vangelo vissuto senza sconti, la memoria di un pontificato che ha aperto vie nuove e interrogato coscienze. E resta soprattutto un’eredità spirituale che chiede di essere raccolta: quella di una Pasqua che non si riduce a celebrazione, ma diventa stile di vita.
Francesco ha amato fino alla fine. Ed è così che si attraversa la morte: amando.
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