Franco Basaglia ha aperto i manicomi. Nel quarantesimo anniversario della sua scomparsa parla quello che fu il suo braccio destro, il professor Franco Rotelli, poi diventato dirigente della sanità in Friuli.

Come inizia il suo rapporto con Basaglia?
Ero laureato da poco, sentivo di dover fare qualcosa per cambiare la pischiatria e mi sentivo in asse con la sua carica vitale. Nel ‘71 Basaglia vince il concorso a Trieste come direttore dell’ospedale psichiatrico provinciale. Viene chiamato dal primo presidente della provincia di centrosinistra, Michele Zanetti, risoluto nel cambiare le cose. Io lo seguo.

Lei è poi anche stato eletto in Regione. Cosa la affascina della psichiatria, e perché si passa dalla cura del disagio a quella della res publica?
La psichiatria mette in gioco tutto: i problemi della giustizia, del libero arbitrio, della diseguaglianza sociale. Si occupa delle dinamiche interne di ciò che accade nelle famiglie, dell’incidenza del lavoro sulla vita delle persone, il rapporto tra istituzioni pubbliche e cittadine, la questione dei limiti della libertà. Questioni politiche, sociali, giuridiche e filosofiche. Il nostro scopo è includere e integrare persone diversisisime in una società complessa che tende a escludere gli ultimi. Non c’è professione più politica, forse. Mettere fine al vecchio manicomio fu, di per sé, un atto rivoluzionario. Il manicomio era un luogo di degradazione delle condizioni umane, mettervi fine è stato un gesto che ha cambiato una parte, pur piccola, delle nostre comunità.

In quali condizioni vi siete trovati ad operare con Basaglia?
Tenga presente che arrivammo a Trieste negli anni in cui vi si riversavano migliaia di esuli istriani, trecentomila persone che erano scappate dal loro Paese. Era una terra di frontiera in tutti i sensi, dove si poteva osare con la ricerca e con la sperimentazione di metodi nuovi, ma dove il contesto storico aveva portato in manicomio la cifra mostruosa di 1300 persone, una struttura al collasso. Le immagini che ci trovammo davanti, al nostro arrivo, furono scioccanti anche per noi: sporcizia, catene, sbarre, elettroshock.

Come iniziaste?
Il presidente della provincia Zanetti, che era democristiano, dà a Basaglia carta bianca. Si verifica qualcosa di impensabile e forse di irripetibile. Basaglia chiede e ottiene 30 borse di studio per psicologi e psichiatri. La televisione e i giornali danno mano, il successo mediatico è tale che da tutta Italia arrivano studiosi e volontari. Tanti giovani, tutti molto motivati.

Qual era il contesto normativo dei vostri esordi?
Era in vigore la legge del 1904: tutte le persone internate in un ospedale psichiatrico erano da considerarsi pericolose. Non era tanto un giudizio di valore, quanto un principio giuridico: se uno di questi veniva trovato per strada veniva processato. Era considerato come un prigioniero. C’era una presenza, oggi non più pensabile, della magistratura e della questura.

L’anti-autoritarismo dei movimenti incide sul vostro impegno?
All’epoca tutto risentiva della forza di quell’ondata libertaria. C’era una energia che cercammo di trasformare in atti concreti. Una piccola legge del ‘68 consentiva di poter entrare volontariamente nell’ospedale. Questo voleva dire una cosa ben precisa: che se entravi volontariamente, potevi uscire liberamente. Non eri più costretto a stare, come se fossi un prigioniero. Si crea la figura dell’ospite, che – anche se ricoverato – dal punto di vista giuridico resta un cittadino libero.

Quali problemi vede oggi?
Ci sono ancora troppe residenze, troppi ospiti dentro. Il mio obiettivo, se devo portare a termine la battaglia di Franco, è quello di residenze zero. Dare una casa a tutti, con servizi che aiutino le persone con disagio psichico – ad alta o a bassa intensità – a condurre una vita dignitosa nello spazio di una propria casa.

Costerebbe molto.
Le residenze di oggi sono molto costose. Incredibilmente. Ed è più facile dire “dove lo metto” piuttosto che “cosa farà”, “cosa facciamo con lui o con lei”. Quando ci si chiede “dove lo metto”, si finisce per scegliere una soluzione di comodo, dietro alle quali può nascondersi anche chi fa del business.

Che cosa chiederebbe Basaglia oggi?
Che si torni ad investire sull’assistenza psichiatrica. Ce n’è bisogno. Le autorità sanitarie chiedono 20 miliardi di investimento per la sanità pubblica? Bene. Io dico che ci vuole un miliardo dedicato alla psichiatria. Ed è il momento di stendere nuovi decreti attuativi per la legge 180, senza i quali rischia di rimanere una bella pagina di pura teoria. Insomma, qualcuno porti avanti la sua riforma, mettendoci la faccia. Ci pensi, perché tutte le leggi portano fieramente il nome del ministro, del presidente del consiglio, del deputato che l’ha proposta, e solo la legge 180 è rimasta agli atti come legge Basaglia? Perché nessuno vuol rischiare con il consenso elettorale. Perché i matti non votano e non muovono interessi. I presidenti di regione sono quelli che si occupano di sanità. Io non trovo un presidente di Regione che si sia mai occupato di servizi psichiatrici in modo significativo. C’è stato spesso l’affiorare di una cultura molto muscolare contro i più deboli, contro chi sta ai margini. Il tema di oggi è la ricerca spasmodica di capri espiatori. Se non è il matto, è l’immigrato, se non è l’immigrato è il detenuto. Tutto il welfare di comunità va ripensato nell’ottica di una società integrata, e non fatta di ostilità interne. Reprimere non aiuta mai a pacificare. C’è bisogno di capri espiatori quando si vuole assumere un potere che non si è in grado di meritare. Vale nella vita di ciascuno, ma ancor più nella vita pubblica, nella politica. Quando un politico non ha meriti particolari, cerca di additare dei “nemici sociali”. Storicamente, gli ebrei, i neri, gli zingari, gli omosessuali, i matti e i detenuti sono le categorie messe nel mirino. A rotazione.

Attraversiamo un periodo di grande scollamento, segnato dalla malattia, dall’impoverimento. Come vede la trasformazione possibile?
Una società impaurita è capace di ripensare se stessa e manifesta la voglia di ricomporsi. Una società distanziata fisicamente tende a riavvicinarsi socialmente, a tornare comunità, a rivalutare i propri tratti comun. Una volta che si supera il trauma, si è capaci di rielaborare e dunque di ricollocarsi in quest’ottica, cercando i propri simili e riscoprendo la necessità di dare forza alla comunità. Spero che i servizi educativi, culturali, sociali aiutino a ricostruire un welfare di comunità, e non solo una batteria di risposte prestazionali ed emergenziali. Non dobbiamo solo curare le ferite ma tesaurizzare l’esperienza per cambiare il modo di vivere la mente. Noi, con Franco Basaglia, lo avevamo fatto.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.