L'intervista
Franco Roberti sulle intercettazioni: “I magistrati siano responsabili”
«C’era una prassi sbagliata a cui le Sezioni Unite hanno posto rimedio». Così l’ex procuratore Franco Roberti, oggi europarlamentare ed ex assessore alla sicurezza della Regione Campania, commenta la sentenza della Corte di Cassazione che a gennaio ha posto un argine al dilagare delle cosiddette intercettazioni a strascico, ritenendole non valide quando riguardano reati diversi e senza alcuna connessione forte con quelli per i quali quella stessa attività investigativa è stata autorizzata.
La Cassazione ha messo fine a un orientamento molto diffuso in questi anni. Lo condivide?
«La Cassazione ha ristabilito quello che la legge già prevedeva. L’orientamento delle Sezioni Unite mi sembra corretto e sarà quello a cui dovranno attenersi i magistrati».
Ritiene che negli anni ci sia stato, da parte dei pubblici ministeri, un uso eccessivo delle intercettazioni come strumento investigativo?
«La valutazione va fatta processo per processo perché ogni processo ha una storia a sé. Ma certo, l’uso corretto delle intercettazioni è prescritto dalla legge e le intercettazioni devono essere un mezzo di ricerca della prova. Quindi, una cosa è fare le indagini soltanto ed esclusivamente con le intercettazioni e un’altra è utilizzarle come uno dei più importanti strumenti di indagine. Perché le intercettazioni sono fondamentali ma non possono essere l’unico strumento di indagine. Non sono una prova, sono un mezzo per ricercare la prova di reati per i quali ci sono già indizi».
Il tema relativo alle intercettazioni conduce a un altro tema molto sentito: la ragionevole durata delle indagini preliminari. Secondo i dati del più recente report sulla giustizia, il 53% delle prescrizioni matura in fase di indagini preliminari e il 24% nel giudizio di primo grado. Come commenta questi dati? Si perde troppo tempo?
«La prescrizione dipende dall’inefficienza del processo penale italiano, è il segnale della incapacità del sistema giudiziario di concludere indagini e processi entro un tempo ragionevole».
Cosa dobbiamo intendere per “ragionevole”?
«Definisco ragionevole la durata di un processo che non ha tempi morti. È vero che ogni processo ha la sua storia e i suoi tempi, ma è importante che non si verifichino perdite di tempo inutili e questo deve ricadere nella responsabilità dei magistrati».
Significa sanzioni per i magistrati che si perdono in lungaggini?
«Sì. Mi faccia dire questo: se la velocità con cui si concludono i processi penali e civili non è considerata parametro rilevante in sede di valutazione della professionalità di un magistrato, la tempestività di definizione non sarà mai percepita da ogni singolo magistrato come un valore e se non è percepita come un valore non avremo mai una giustizia efficiente e tempestiva. Responsabilizzare su questo i magistrati è tra le mie proposte di riforma, assieme a una grossa depenalizzazione e una diversa organizzazione del sistema giudiziario sia sul piano telematico sia per consentire lo snellimento dei processi».
Perché, secondo lei, una vera riforma della giustizia non è stata ancora attuata?
«Perché manca la volontà politica, perché la giustizia non è considerata una priorità e quindi non si investe nella giustizia che continua ad essere la Cenerentola della spesa pubblica. Eppure ce lo chiede adesso anche l’Europa come condizione per il Recovery Fund. La pandemia ha svelato tutte le fragilità della giustizia che ora è letteralmente in ginocchio: è il momento di intervenire con riforme e risorse finanziarie, perché una giustizia civile e penale che funziona è condizione inderogabile per accedere a fondi dell’Unione europea e perché una giustizia efficace ed efficiente è la precondizione necessaria per lo sviluppo economico del Paese. Solo dove c’è una giustizia tempestiva ed efficiente si possono attirare investimenti».
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