Leggere "Fratelli tutti"
Fratello Bergoglio, camminiamo insieme
Fratelli tutti ci appare come l’enciclica delle encicliche, non solo per la sua struttura carica di citazioni, di rimandi a cose dette e autori amati, ad aperture profetiche. È proprio il suo sviluppo a suggerire che il Pontefice raggiunga con la sua ultima enciclica la tappa importante di un lungo cammino, pronto già a riprenderlo verso l’orizzonte così intensamente ricercato, ma avendo segnato un punto fermo.
Quell’orizzonte è quello che consente a ognuno di noi di sentirsi coinvolto in questa ricerca, credente o non credente, vicino o lontano dalla Chiesa e dalla sua dottrina. Lo chiede esplicitamente il Papa rivolgendosi agli uomini di buona volontà. L’apertura del Concilio Vaticano II prende così il carattere forte e irreversibile di un imperativo esistenziale per la Chiesa di Francesco che assume la lezione del Francesco di Assisi a ispirazione del suo presente e futuro cammino. Si rivela anche per questa scelta il peso che il Pontefice attribuisce all’enciclica, a questa tappa di un cammino ininterrotto. Le novità che essa contiene rivelano verità capaci di suscitare scandalo nel tempo presente, perché resistono all’aria del tempo e vi si sottraggono. Papa Francesco si conferma essere, in tutto l’Occidente almeno, l’unico testimone a saperlo fare e a sapere farlo vivere in tanta parte del mondo con la priorità attribuita ai poveri, agli ultimi.
I suoi nemici fuori dalla Chiesa sono insorti; i suoi nemici dentro la Chiesa vorrebbero ammutinarsi. L’accusa, ora esplicita, ora sotterranea, sebbene possa apparire incredibile, è quella di minare le basi stesse della Chiesa cattolica, erigendosi il Papa fuori e contro la tradizione. Se ce ne fosse bisogno, Fratelli tutti smonta in radice l’accusa; la trama e l’ordito dell’enciclica parlano tutte la stessa lingua. Il tessuto che si ricava è fatto dello stesso materiale, che anzi colpisce per la sua unitarietà, pur attraversato com’è dalla ricchezza dei suoi colori, dall’ampiezza dei temi affrontati. Una formula, diventata celebre in tutt’altro campo e in un tempo diverso, mi pare ne possa riassumere l’ispirazione: il rinnovamento nella continuità. Diversamente, però, da quella citata, in questo caso la formula premia il rinnovamento. Il suo partecipato rapporto con la tradizione lo fa non meno ma più potente.
Il Papa dell’enciclica non si difende dall’accusa, non si giustifica, coglie invece nella tormentata e complessa storia della Chiesa, e più in generale in quella del Cristianesimo, i precedenti che danno luce alla ricerca di oggi, a cui conferiscono l’autorevolezza delle fonti, sino a risalire alla fonte originaria, alle parole e alla vita di Gesù. Nell’enciclica trova un posto centrale una parabola, la Parabola del buon samaritano, quella che si propone di rispondere alla domanda: «Chi è il tuo prossimo?».
Non c’è chi non veda che è questa la domanda cruciale del nostro tempo, il tempo dei muri contro chi si vuole straniero, il tempo dello scarto, della spoliazione di umanità, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’alienazione umana, del dominio, ma anche il tempo che ci chiede di ricominciare. «Gesù racconta che c’era un uomo ferito lungo la strada, che era stato assalito… uno si è fermato, gli ha donato vicinanza, lo ha curato… soprattutto gli ha dato una cosa su cui, in questo mondo frettoloso, lesiniamo tanto: gli ha dato il proprio tempo». Due parole rivoluzionarie, cura e tempo. Il samaritano per l’ebreo è l’escluso, è l’adoratore di idoli, è il portatore di scandalo, ma lui qui è l’unico che soccorre l’aggredito dai briganti. Quel gesto cambia tutto, non ci sono più muri, confini, forestieri, stranieri, migranti, nativi. La solidarietà tra gli uomini spezza le catene. «Né giudeo, né greco, né schiavo, né libero, né maschio, né femmina», aveva detto Paolo. “Fratelli tutti”, appunto.
È qui, nella più radicale delle formule, la risposta che l’enciclica cerca alla domanda che Gesù aveva posto nella parabola: «Chi è il prossimo?». Si dovrebbe capire bene che le classiche, anche se deperite, categorie della politica, destra e sinistra, non sono usabili per leggere la collocazione del Papa e della sua enciclica. Dunque, è del tutto sconsigliabile, anche a chi si consideri di sinistra, di usarlo per coprire le proprie mancanze, le mancanze del proprio campo. Semmai si possono cogliere le sue ascendenze in quella teologia del popolo, così viva nella sua terra d’Argentina. Il popolo è una presenza forte nell’enciclica pontificia e vengono individuati nitidamente i suoi avversari di oggi: i liberismi e i populismi. Viene chiaramente messo in luce che esso stesso può solo essere il frutto di un processo nel quale la soggettività diventi protagonista.
Citando il direttore della Civiltà cattolica, Antonio Spadaro, l’enciclica ci dice che «essere parte del popolo è far parte di un’identità comune, fatta di legami sociali e culturali. E questa non è una cosa automatica, anzi è un processo lento, difficile… verso un progetto comune». Gramsci non era affatto lontano da questa idea di popolo. Assai lontana è invece la cultura politica oggi dominante, pervasa com’è dall’individualismo e dal mercato. In ogni caso, l’enciclica ci indica la strada opposta a quelle dell’individualismo, dicendoci: «È molto difficile progettare qualcosa di grande, a lungo termine, se non si ottiene che diventi un segno collettivo». Non sorprende perciò che un capitolo venga dedicato alle tre grandi parole su cui è nata la politica nella modernità: libertà, eguaglianza e fraternità.
Ma il Papa scavalca anche la storica contesa su chi, tra eguaglianza e libertà, debba trainare il processo di liberazione umana e lo fa, partendo dalla più negletta tra le tre nella nostra storia, la fraternità. Essa costituisce, per l’enciclica francescana, il necessario e imprescindibile punto di partenza, anche perché «l’individualismo radicale è il virus più difficile da sconfiggere». Ecco il punto: «La fraternità ha qualcosa da offrire alla libertà e all’eguaglianza». La fraternità è la risorsa per l’uomo, però essa non può vivere da sola perché «finché il nostro sistema economico-sociale produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, non ci potrà essere la festa della fraternità universale».
Viene così in primo piano proprio la grande questione della pace. Dal Papa, andato a prendere nel Paese più lontano, dal Papa che, primo e solo tra i grandi della Terra, ha parlato di una terza guerra mondiale a pezzi, ci si poteva aspettare finalmente una parola definitiva. La parola è venuta. Lontano dalle benedizioni ecclesiali, delle armi in guerra, fuori dalle incertezze e dalle contraddizioni anche più recenti sul tema si erge il rifiuto della “guerra giusta”, sostituito dall’intransigente “mai più la guerra”. «Solo la pace è giusta», aveva scritto un uomo di chiesa vicino al pensiero del Papa, il cardinale Matteo Zuppi. La politica viene trascinata dall’enciclica al cospetto dei grandi e terribili problemi del nostro tempo, al fine di farle riscoprire la sua ragione più profonda di esistenza, al fine di poter giustificare la sua esistenza.
In essa si vede bene il pericolo delle strategie che pretendono di sostituirla con l’economia e vi si chiede: «Può il mondo funzionare senza politica? Può trovare una via efficace verso la fraternità universale e la pace sociale senza una buona politica?». Ma la via che essa deve intraprendere, sottraendosi al cattivo uso del potere, è impervia, «la politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficentista della tecnocrazia». È la sfida del nostro oggi, di un oggi che vede la politica asservita, eppure la sfida che essa dovrebbe sapere accogliere per dimostrare che le parole del Papa, quelle che ricordano la Evangelii Gaudium, hanno fondamento anche nella nostra realtà attuale.
Lì trovate scritto che: «La politica è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune». Si sente qui il richiamo a quella Populorum Progressio, con la quale Paolo VI nel 1967 avviò una riflessione difficile e feconda e, contemporaneamente con Fratelli tutti, Papa Francesco si colloca già avanti, si colloca sulla nuova frontiera provocata dal capitalismo finanziario globale, dalla globalizzazione del mercato, dalla massimizzazione del profitto e della dilatazione delle diseguaglianze.
Sono precipitate su questi impegnativi capitoli dell’enciclica le contestazioni dei liberisti, alleati in un singolo fronte comune, con le relazioni clericali e conservatrici interne al mondo cattolico. Fanno come se fosse il Papa socialista. Il j’accuse è violentissimo, questo Papa è fuori e contro la tradizione. Eppure, è proprio sul terreno sociale, a partire “dall’amore politico”, – parole dell’enciclica – che più evidente si fa la ricerca del rapporto tra rinnovamento e continuità nel pensiero di papa Francesco. La dignità della persona umana, nel lavoro in particolare, la destinazione universale dei beni, la solidarietà alla funzione sociale dell’impresa, sono principi a cui si ispira il pensiero sociale cattolico. Nella forma più radicale, nei primi secoli della fede cristiana, ma poi rintracciabile ancora da Tommaso D’Acquino, fino alla Rerum Novarum. Più prossimi a noi, molti, e da molte parti del mondo cattolico, quandanche spesso ostacolati, sono stati i tentativi generosi e creativi di andare oltre la dottrina sociale della Chiesa, si pensi per tutti ai preti operai e alla teologia della liberazione.
Ora il Pontefice si incammina sulla via già aperta dalla Laudato si’. Non c’è dubbio che si tratti di una scelta importante, che avrà grandi influenze, ma certo non si tratta di una scelta improvvisata. Si tratta di una costruzione fatta di pensieri, parole, fatti; si tratta di una costante azione pastorale, praticata in tutto il suo pontificato. È un processo soprattutto maturato a fronte dell’affermarsi dell’economia dello scarto, dei problemi allarmanti per l’umanità che questa pone. «Mentre una parte dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità disconosciuta, disprezzata o calpestata», mentre l’economia globale vuole imporre un modello culturale unico, è quello che chiamiamo il nuovo capitalismo totalitario.
Sta qui il punto di leva del pensiero del Pontefice, che affida alla solidarietà un compito storico, quello di – sono le parole dell’enciclica – «lottare contro le cause strutturali delle povertà, la diseguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa. La negazione dei diritti sociali e lavorativi, è far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro… la solidarietà… è un modo di fare la storia ed è questo che fanno i movimenti popolari». A me pare che così cambi lo sguardo della Chiesa sul mondo, assumendo uno sguardo che è quello dei poveri, o almeno della loro priorità. Ma la sorpresa dei liberali su come Fratelli tutti affronti i temi della proprietà e del mercato è davvero mal riposta. Che il “mercato da solo non risolve tutto” è oggi di un’evidenza clamorosa e drammatica, e che l’enciclica veda il fallimento del neoliberismo è il risultato di un’incontestabile analisi sociale.
E, in ogni caso, dovrebbero i critici in questione, ben più preoccuparsi per la denuncia contenuta nell’enciclica di Papa Francesco, di questa economia come l’economia dello scarto. Né può essere imputata contro Papa Francesco la considerazione secondo la quale il diritto alla proprietà privata è un diritto limitato, «naturale e secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati». Bisognerebbe almeno ricordare che la Costituzione repubblicana muove, seppur laicamente, nella stessa direzione. Ma forse, quel che vuole è che l’enciclica denunci le pratiche che mettono i diritti secondari, quelli della proprietà, sopra quelli prioritari, «privandoli di rilevanza pratica». È anche perciò, come dice l’enciclica, «la storia sta dando segni di un ritorno all’indietro». Si tocca con mano, per questa via, come la separazione in cui si vorrebbe imprigionare la riflessione del Pontefice, cioè la separazione tra la dimensione teologica, quella pastorale e quella politica, è solo un’istanza conservatrice, sia nei confronti della religione che della società.
Un’istanza impugnata per impedire al Papa di prendere la parola nel mondo e di camminare con i popoli del mondo verso una rinascita dell’umano. Invece, proprio tutto di questa enciclica è ispirato a questo dovere: camminare insieme al popolo, nel popolo. Lo è anche il suo linguaggio, la lingua dell’enciclica è una lingua semplice, limpida, popolare. Si provi a confrontarla con quella di encicliche precedenti, anche tra quelle famose, e si vedrà quanto forte è la discontinuità su questo terreno. In questo andare verso il popolo, anche la lingua del Papa, persino in uno dei suoi momenti più solenni, quello dell’enciclica, si fa popolare. Non c’è nessuna rinuncia alla “cultura alta”, basti scorrere le colte e suggestive citazioni da Siracide alla Lettera ai Romani di Paolo, ma c’è la rottura della separazione con quella “bassa”, c’è la connessione tra l’alto e il basso, si veda la citazione della Samba da benção di Vinícius de Moraes.
Non solo non c’è nell’enciclica nessuna concessione alla moda apologetica sulle nuove tecnologie delle comunicazioni. «La connessione digitale non basta a gettare ponti, non è in grado di unire l’umanità». «C’è bisogno – è scritto nell’enciclica – di gesti fisici, di espressioni del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo e persino di profumi, tremiti delle mani, rossore, sudore, perché tutto ciò parla e fa parte della comunicazione umana». Le parole e il fatto.
Era il Venerdì Santo, pioveva a dirotto su Piazza San Pietro, un uomo solo, il Papa, in mezzo alla piazza sotto un tendone spoglio, ha parlato al mondo intero.
Se guardi quella scena, tenera e potente insieme, capisci l’enciclica Fratelli tutti e la missione di Papa Francesco. Un utopista il Papa? Risponde lui stesso, quando ha sostenuto in un’intervista che «bisogna andare verso un oltre-utopico, in cui l’utopia è critica della realtà che ricerca nuove strade». E poi, utopista o realista? Già l’allora patriarca di Venezia, Albino Luciani, commentando dieci anni dopo l’enciclica di Paolo VI aveva scritto: «È realista chi non crede che si possa andare avanti come prima», viste le condizioni disumane a cui ci condanna il mondo così com’è.
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