A Wilhelm Fliess, “l’amico segreto” con cui intrattiene uno scambio intenso, intellettuale e, pur nella castità, dichiaratamente amoroso, nel periodo più originale della sua scoperta  – gli studi sull’isteria, l’autoanalisi, l’interpretazione dei sogni -, Sigmund Freud scrive: «Io non sono né uno scienziato né un osservatore né uno sperimentatore né un pensatore. Non sono altro che un conquistador per temperamento  – un avventuriero, se volete tradurre il termine – con la curiosità, la baldanza e la tenacia propria di quel genere di individui». A ottant’anni dalla sua morte, in una situazione come quella di oggi che ha visto eclissarsi i confini tra privato e pubblico, le “viscere della storia” travolgere le difese innalzate dalla civiltà occidentale a riparo da tutto ciò che ha considerato “il mondo caotico dell’antiragione”, che posto viene dato all’eccezionale esploratore dell’animo umano e alle sue conquiste? Se si esclude la breve parentesi del ’68, quando la psicanalisi ha fatto la sua breve comparsa nel movimento degli studenti e nel femminismo, considerata necessaria per una politica spinta “alle radici dell’umano”, negli anni che seguirono sembrò che della materia segreta, portata allo scoperto da Freud, non fosse rimasto, come scrisse Elvio Fachinelli, che «il flusso torrenziale delle immagini e delle voci che percorrono il mondo come un inconscio diffuso a tutta la ionosfera». Nonostante il riconoscimento che era stato fatto allora a Freud e a Marx come rivelatori dei fondamenti della coscienza borghese, il primo a partire dalla crisi della famiglia, l’altro dalla nascita dell’industria, le nuove prospettive aperte dalla ricerca di nessi tra poli astrattamente contrapposti – individuo/società, biologia/storia, ecc.- non durarono a lungo. A Freud fu riservata la stessa critica che i movimenti non autoritari rivolgevano a una società repressiva, patriarcale, proprio nel momento in cui appariva chiaro il declino della figura paterna e l’emergere, dietro il consumismo di massa, di un fantasma materno saziante e al medesimo tempo divorante. Era uno strano, ingiustificato destino per l’intrepido avventuriero che aveva osato penetrare il rimosso innominabile della storia dei padri, sfidare l’io onnipotente della ragione tecnico-scientifica e burocratica, addentrarsi nel mare procelloso del mondo emotivo.

Si può dire che della sua grande scoperta, la “cura delle parole”, si era valso fin dai suoi inizi il femminismo, spostando l’attenzione sulle problematiche del corpo – sessualità, maternità, aborto, salute, ecc.-, e avviando con l’autocoscienza una pratica capace di inoltrarsi in quelle estreme regioni che stanno tra inconscio e coscienza, per far luce su una visione del mondo dettata dall’uomo ma forzatamente interiorizzata dalle donne stesse. La scoperta della sessualità infantile e dell’influenza che ha la preistoria degli umani sui sistemi sociali, non poteva che affiorare nell’animo inquieto di un uomo-figlio; l’analisi in chiave psicologica dell’isteria, l’attenzione straordinaria, partecipe e lungimirante, con cui Freud si addentra nelle inedite storie delle sue pazienti, sarebbero inspiegabili senza quel movimento parallelo che piega lo sguardo su di sé, su quella “parte femminile” che l’uomo tiene celata dentro la corazza della virilità. Sulla strada del suo avventuroso viaggio nel mondo ignoto della vita psichica, Freud non poteva non incontrare prima di tutto il sesso che la storia ha identificato con le sue origini – corpo, natura, animalità, mortalità -, e cioè la donna. Ma non avrebbe potuto leggere così a fondo nelle vicende e passioni contraddittorie dell’esistenza femminile, se non avesse contemporaneamente scoperto in se stesso il protagonismo del corpo e dell’immaginario sessuale. Non c’è dubbio che è la tenerezza filiale a fargli vedere come “esente da ambivalenze” la relazione madre-figlio, a collocare nella unità a due dell’origine il modello di ogni felicità, a riconoscere nell’attaccamento della figlia alla madre un desiderio sessuale analogo a quello del maschio, e nella “svolta” verso l’uomo un destino che avviene non senza forzature ed eccezioni. Esemplare, da questo punto di vista, è “Il caso Dora”, l’analisi di una omosessualità femminile, che è stata oggetto di uno dei miei primi scritti legati al femminismo, pubblicato sulla rivista “L’erba voglio”. A fronte della crisi che attraversano oggi le democrazie occidentali, costrette a prendere atto che dietro il voto della maggioranza si nasconde spesso un inconscio reazionario, che la civiltà e la barbarie non hanno mai smesso di affrontarsi e confondersi nello spazio pubblico, che aver lasciato “insondate” le acque profonde della persona ha spogliato il cittadino delle sue difese, ciò che colpisce è proprio il silenzio della psicanalisi e la dimenticanza caduta sul suo fondatore. Il grande disordine in cui viviamo è fatto di libertà prima sconosciute, consapevolezze nuove, grandi mobilitazioni popolari, messa in discussione di modelli considerati a lungo “naturali” – l’eterosessualità, le figure di genere, la famiglia patriarcale -, ma anche di spinte restauratrici, rivalse, ritorni a forme arcaiche di potere.

Sessismo, classismo, razzismo, colonialismo, fascismo, parlano la lingua di un inferno rimosso, segnalano presenze del passato che premono per la propria reincarnazione. Nel suo saggio Il paradosso della ripetizione, scriveva Elvio Fachinelli: «Nessuna antropologia che si voglia all’altezza del suo oggetto potrà in futuro trascurare di esaminare e approfondire queste “potenze interne”». Per quanto riguarda, in particolare, la violenza maschile contro le donne, la sequenza allarmante dei femminicidi, è ancora la lezione di Freud, le sue stesse contraddizioni, a indicare una via d’uscita che non sia solo quella della tutela delle vittime e dell’aggravio delle pene per gli aggressori. Per capire il peso che ha il prolungamento dell’amore nelle sua forma originaria, la fusione col corpo della madre, nel creare vincoli di dipendenza e indispensabilità anche là dove non sono necessari, e di conseguenza spinte a spezzarli con la violenza, alcune pagine del saggio Il disagio della civiltà sono tuttora illuminanti. «Che cosa desiderano di più gli uomini ottenere dalla vita?», si chiede Freud. La risposta è semplice: «Diventare e essere felici», una felicità che collocano nell’amore – amare e essere amati -, così come lo hanno conosciuto alla nascita, quando Io e Tu erano ancora tutt’uno. Nessuna meraviglia se questo desiderio primordiale si prolunga nell’innamoramento e nella coppia amorosa adulta, considerata “stabile” solo quando “la moglie diventa anche la madre del proprio marito”. L’idealizzazione della coppia madre-figlio impedisce a Freud di vedere quanto siano sovrapposte e confuse le due pulsioni, amore e morte, che egli vedrà come due istinti paralleli, e quanto sia in contraddizione la sua nostalgia di figlio con la lucida consapevolezza del rapporto di potere che ha segnato storicamente il rapporto tra i sessi. Nessuno ha descritto con tanta precisione e profondità quella che potremmo chiamare l’essenza del sessismo: «L’uomo non è una creatura mansueta, vede nel prossimo non soltanto un eventuale aiuto e oggetto sessuale, ma anche un invito a sfogare su di lui la propria aggressività, a sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, ad abusarne sessualmente senza il loro consenso, a sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, ad umiliarlo, a farlo soffrire, a torturarlo, a ucciderlo». La grandezza di chi “esplora” e apre la strada verso nuovi paesaggi è quella di saper cogliere esigenze radicali, possibilità in quel momento impossibili, ma destinate per ciò stesso a ricomparire, o come semplice ripetizione o, nel migliore dei casi, come “replica” in cerca di una via di uscita. Volendo essere ottimisti, è questa seconda opportunità che ci si augura di veder nascere dal caos in cui ci troviamo oggi a vivere

Lea Melandri

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