La Germania non vuole la fusione di Commerzbank con Unicredit perché Unicredit è italiana. Può essere vero. Come anche no. La osteggia perché il gruppo guidato da Andrea Orcel ha già fatto acquisizioni importanti sul suo territorio. Però anche questo livore verso ciò che è stato resta da dimostrare.

In realtà, dopo una linea dura iniziale di Berlino, ieri il portavoce della Cancelleria ha detto: «Non c’è una ulteriore riflessione per evitare qualcosa e questo dipende adesso dagli attori del mercato dei capitali». Come a dire “c’abbiamo provato, non ci siamo riusciti”. Un fatalismo, quello di Scholz, che sembra andare nella stessa direzione del suo ministro delle Finanze, Christian Lindner. Ma se per il Cancelliere, socialista, il libero mercato è il responsabile della vicenda – o forse il colpevole? – per il suo ministro liberale è la soluzione. Perché questi interventi, a suo dire, creano sfiducia tra gli investitori, paura tra i lavoratori, incertezza tra i clienti.

Chi ci guadagna

Da qualunque prospettiva si guardi, il piano di Unicredit a Berlino non va giù. Questo è assodato. Tuttavia, merita riflettere su chi ci guadagna. Primo: il gruppo milanese, è ovvio, che conferma la sua sensibilità per i mercati stranieri. Risale infatti al 2005 l’Opa su HypoVereinsbank AG (HVB-Group), che portò a quelle su Bank Austria Creditanstalt e Bank BPH. L’operazione segnò l’inizio del risiko mitteleuropeo da parte di Unicredit, allora guidata da Alessandro Profumo. Un’espansione agevolata dal fatto che le banche tedesche sono tradizionalmente deboli, in quanto esposte ai crediti erogati alle Pmi. Questa spinta vero est si estese poi ai Balcani e penetrò in Russia. Peraltro, con la necessità di colmare il vuoto che si sta creando con l’allontanamento da Mosca, a seguito della guerra, è plausibile che, a Piazza Gae Aulenti, vedano nel mercato tedesco uno sbocco sicuro.

Ma è la portata europea dell’operazione che merita maggiore riguardo. Bruxelles, per voce di Draghi, Letta e della stessa Ursula von der Leyen, invoca la creazione di gruppi produttivi, industriali e finanziari, forti e in grado di tener testa alla concorrenza degli Usa. D’altra parte, questo si scontra con l’opposizione condivisa dai campioni nazionali e dai governi degli Stati membri, che non hanno la minima intenzione di aprire le porte a soggetti che, pur europei, non parlano la loro lingua. È questa la motivazione per cui la Commissione Ue critica il sovranismo tedesco: “si cresce insieme, aprendo le porte ai vicini”.

Competitività

D’altra parte ancora, creare campioni europei significa andare contro le regole dell’antitrust. Anzi, vuol dire mettere in discussione quel principio di libera concorrenza interna che è una chiave di volta del progetto europeo. Non è un caso che tra le prime voci contrarie al piano Draghi si sia fatta sentire quella della Commissaria uscente alla Concorrenza, Margrethe Vestager. Per tutto il suo mandato, la radicale danese ha fatto da alfiere al libero mercato, convinta che sia un vero fattore di sviluppo e di crescita. Al contrario di chi pensa che a renderci competitivi dovrebbero essere le imprese di maggiori dimensioni, dotate di risorse importanti e così in grado di assorbire e sviluppare le innovazioni proprie delle startup.

«Nessuna delle due scuole ha la certezza di essere nel vero», commenta Giorgio Arfaras del Centro Einaudi. «La filosofia del pesce grande che mangia il piccolo e così innesca un processo virtuoso per tutta la società è americana, non europea. Altrettanto è il contrario: in Europa, dove c’è più concorrenza, le imprese sono più acquisibili, quindi è il mercato a essere più dinamico». Entrambi i sistemi hanno avuto successo. Tornando però sul nostro continente, quando il sovranismo di un governo si trasforma in uno strumento di antitrust, il principio della concorrenza è pretestuoso. E se siamo tutti d’accordo che, in questo momento, l’economia europea si sta giocando il suo futuro, allora anche le acquisizioni diventano un mezzo giustificabile.