Sei quaderni di annotazioni e disegni usciti postumi
Gadda e la guerra, dall’esaltazione all’orrore: il conflitto mondiale raccontato dal grande scrittore

La letteratura italiana sulla guerra è sterminata. Per limitarci alla Grande Guerra pensiamo solo a Slataper e Lussu, a Renato Serra e Palazzeschi, a Ungaretti e Rebora. Vorrei soffermarmi su Gadda, perché il suo è il punto di vista di un convinto interventista, dannunziano e iper-nazionalista, infervorato nelle aule scolastiche dalle imprese dei condottieri romani e dagli ideali risorgimentali, e partecipe di un clima culturale impregnato di retorica bellicistica (futurismo, la rivista “Lacerba”, etc.). Al tempo stesso, nel suo Giornale di guerra e di prigionia (6 quaderni di annotazioni e disegni usciti in buona parte postumi, di cui uno perduto a Caporetto) si riverbera una testimonianza straordinaria, dove ogni parola è sottesa da una partecipazione emotiva nuda, inerme, a tratti quasi insostenibile, e dove l’idealizzazione ingenua della guerra cede spazio quasi subito alla descrizione dell’orrore, dei lutti, e poi della noia, della miseria morale e dell’umiliazione.
Gadda, sottotenente degli alpini, elogia la guerra “necessaria né santa”, con l’autodisciplina ferrea che comporta, e ama sinceramente la patria, la “santa terra”, a cui sacrificherebbe subito la vita, in una morte “utile e bella”. Un amore puro e disinteressato per la patria – premessa di qualsiasi senso dello stato – che si potrebbe perfino invidiargli, se pensiamo che la patria, la “umile Italia”, in seguito sarà affogata nella bolsa retorica fascista, per diventare poi uno slogan politico del tutto svuotato (oggi io mi ritrovo ad essere tutt’al più un “patriota” culturale, devoto alla nostra lingua, all’arte rinascimentale, alla musica del melodramma…). Però lo scrittore non ama incondizionatamente il popolo italiano: ama piuttosto gli italiani “buoni, onesti, intelligenti, sani” e odia i “cani” opportunisti, corrotti, furbi, prepotenti, inclini a dileggiare il prossimo (inclini “al cattivo scherzo, alla mala parola”), e ancora “gli egoismi schifosi, i furti, le pigrizie, le viltà….” (dopo la guerra il suo odio si estende ai nuovi ricchi, agli arrampicatori sociali).
Affiora qui il tema principale di Gadda – il suo fantasma, la sua inguaribile nevrosi -: il bisogno disperato di contrapporre al disordine, a quel “groviglio” irriducibile del mondo (si veda la Meditazione milanese, del 1928) un principio di ordine, che sia ordine sociale, morale, razionale. Tenterà di render conto di quel disordine attraverso l’ingegneria (nel 1920 si laurea in ingegneria industriale, elettrotecnica), poi attraverso la filosofia, la logica (completa gli studi filosofici senza mai discutere la tesi di laurea su Leibniz), infine attraverso la scrittura, con gli innumerevoli progetti letterari, spesso disattesi, e i suoi romanzi fatalmente incompiuti. Il suo pastiche linguistico (oscillante tra comico e tragico) doveva costituire l’equivalente formale del garbuglio. Per la sua formazione scientifica è un positivista ottocentesco, come scrittore appartiene interamente al ‘900 della Crisi, consapevole che il “garbuglio” del reale, con il suo intrico di relazioni e le sue molteplici concause, resta inconoscibile.
A 22 anni ritenne che un argine al caos oltraggioso delle cose potessero essere le gerarchie militari, i regolamenti e gli ordini degli ufficiali, nobilitando ciò che non può essere nobilitato (il carnaio della guerra). Eppure, dopo pagine e pagine in cui elogia l’eroismo militare, la disciplina, etc. e si abbandona a un “oblio” quasi liberatorio di se stesso dentro la vita cameratesca del reparto, improvvisamente annota: “talora vedo in questa guerra un pervertimento di alcuni valori, che sembravano conquiste sicure dell’umanità”.
Successivamente col fascismo prenderà un temporaneo, anche se lungo abbaglio, prima di capire -, nel 1934, con la guerra d’Etiopia – che il suo “ordine” era soltanto retorico e ingannevole, tanto da fargli scrivere il libro più violento e inconciliato, il pamphlet antimussoliniano Eros e Priapo. In quella guerra perderà l’amato fratello Enrico, oltre a tanti compagni e commilitoni. Una delle pagine più dolorosamente commoventi, e di una bellezza lirica assoluta, è quando nei primi giorni di prigionia non trova più, sotto una pioggia battente, il suo attendente Sassella, “un’anima infinitamente più elevata di questi ufficiali che mi circondano”, “anima splendida e rara, devoto come gli eroi dell’Ariosto”. La scrittura quasi doppia, schizoide, di Gadda, fa posto sia all’efficienza degli uffici, al nitore degli ordinamenti militari e sia alla attonita rappresentazione del massacro.
Anche solo sfogliando il Giornale il lettore ritroverà i primi segnali di quella oltranza verbale che ne caratterizzerà lo stile: in un breve congedo va in città a cercare “femmine permeabili” (senza successo), le ondulazioni dell’Altipiano gli appaiono “vaporanti di nebbia”, mentre le pur tassative disposizioni burocratiche sono “mestolate, rovistate, baraondate in tutti i modi”. Inoltre ne ricaviamo indicazioni preziose sul carattere dello scrittore: timidissimo (“da impedirmi di esprimere un concetto chiaro e determinato, se un altro mi contraddice verbosamente”), di “bestiale ipersensibilità”, incapace di farsi obbedire per la sua costante attitudine dubitativa (“l’abito critico m’ha avvezzo a non affermare mai nulla con certezza assoluta…mi manca l’energia, la severità, la sicurezza di me stesso, proprie dell’uomo che non pensa”), ma anche risentito, umorale, pieno di collera repressa: “quand’è che i miei luridi compatrioti di tutte le classi impareranno a tener ordinato il proprio tavolino da lavoro?… quand’è che questa razza di porci, di esseri capaci soltanto di imbruttire il mondo col disordine e con la prolissità dei loro atti sconclusionati…” etc., etc. Dove si ricongiungono l’ossessione della pulizia, del riordinamento (sempre impossibile, incompiuto), e insieme l’apologia della mente razionale, “dell’ideatore, del costruttore”.
Nell’ultima lettera (1967) al cugino Piero, lo scrittore ricordando tra l’altro quegli “anni terribili”, allude a un “eroismo” diverso, da applicare non tanto a spericolate, cruente imprese militari quanto a un lavoro, non meno spericolato, di continua conoscenza di sé e del male oscuro della nostra condizione, di autoindagine impietosa (nei confronti della propria natura “difettiva”), di confronto con i propri inestinguibili rimorsi. Forse oggi l’umanità, dopo tante pur sacrosante lotte di liberazione e dopo tante guerre che in qualche modo furono “giuste”, ma anche dopo tanti massacri insensati, potrebbe essere abbastanza matura da riconoscere che ha perduto definitivamente l’innocenza, e che in ogni guerra, come in quella di Troia, dopo un po’ ciascuno ne dimentica le motivazioni (Simone Weil). Al disordine irriducibile e minaccioso del mondo si può solo, parzialmente, riparare attraverso la umile disciplina della ragione (certo limitata) e attraverso una attenta “cognizione del dolore”, fondamento di qualsiasi vera fraternità.
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